L'autunno in cui tornarono i lupi
di Mario Ferraguti
Bottega Errante Edizioni, settembre 2022
pp. 256
€ 17,00 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)
«Sembra che scelgano i termini apposta, le parole più adatte per diffondere la paura. Un lupo non mangia, ma sbrana, sventra, divora; non cammina ma si aggira in branco spinto dai morsi della fame, come se fosse solo uno stomaco vagante. Scende sempre dai monti, nessuno si è ancora accorto che ci sono lupi nella golena del Po e sul mare. È un lupo enorme, ibrido, straniero. È questo che infilano nella testa della gente, senza rendersi conto che se un lupo può essere ucciso, la paura no, una volta soffiata nell'aria, come il dente di leone si moltiplica in mille piccoli semi, si posa ovunque e chissà dove va a finire. (p. 151)
È autunno quando, nei boschi appenninici vicino al borgo di Pieve dei Lampi, dei cacciatori incontrano l'animale che più di tutti incarna le nostre paure ancestrali: il lupo. Un animale che non vedevano da decenni e di cui si era persa anche la parola per definirlo nella parlata locale dei pastori. Uno sparo, più per un riflesso di terrore che per vero e proprio desiderio di uccidere, e l'animale è a terra. Ma non basta seppellire il corpo perché la paura se ne vada. E, soprattutto, dove c'è un lupo, ne arrivano altri. L'Appennino non è più un luogo sicuro perché il piccolo branco, con a capo un maschio zoppo, fa quello che i lupi non dovrebbero mai fare: attacca i propri simili.
Cane non mangia cane, ma homo homini lupus ed ecco che la distanza tra noi e le nostre peggiori paure si accorcia in fretta.
«È strano» ha detto Guido mentre Leandro si alzava dalla branda, «navighiamo in internet, inviamo satelliti nello spazio, cataloghiamo i sogni, ci spostiamo a velocità incredibili, i nostri telefoni sanno fare qualsiasi cosa eppure, se ci troviamo in un bosco, abbiamo ancora paura del lupo». (pp. 220-221)
L'autunno in cui tornarono i lupi di Mario Ferraguti, esperto ricercatore e scrittore di storie e folklore della zona appenninica e che ha trattato narrativamente la tradizione delle Madonne vestite nel suo romanzo Rosa Spinacorta (trovate qui la recensione), parte, oltre che da una storia vera, anche da una prospettiva auspicabile a livello ambientale: il ritorno dei lupi. La specie, a rischio di estinzione e dichiarata non cacciabile a partire dagli anni Settanta, sta tornando a popolare le montagne tanto che, da rapporto del Parco Nazionale dell'Appennino Tosco-Emiliano, ora conta circa 800 esemplari. Ma la ricomparsa di un animale fondamentale per preservare biodiversità e garantire equilibrio nell'ecosistema non viene ben accettata dagli abitanti del villaggio di montagna. Varie le motivazioni, sia a livello narrativo che a livello più profondo e inconscio.
A livello narrativo, il villaggio di Pieve dei Lampi è preoccupato dell'arrivo di tutto ciò che è altro da loro. Preservare le abitudini e lo status quo del realismo magico in cui sono immersi è la priorità. La distinzione tra loro e gli altri è data anche dalla scelta dei nomi dei personaggi. Gli abitanti del villaggio hanno nomi preziosamente letterari, quasi fossero i protagonisti e gli eredi di tutta la tradizione letteraria dall'epica al verismo: Tancredi, Turno, Leandro, Ercole, Otello... persino i cani sfoggiano nomi come Griso di manzoniana memoria. Chi viene dalla città ed è parte di quel Parco che vuole salvare i lupi deve accontentarsi di essere un Guido e un Marco qualunque.
«Prima le poiane, i cormorani, le vipere e la processionaria, adesso i lupi, ma se le teneste a casa vostra quelle bestie dannose? Vi pagano per metterle e poi seguirle, vi arrivano i milioni dall'Europa; ma prima o poi finisce, finisce della fregatura che è l'Europa, e poi via, a chiedere l'elemosina davanti alle chiese o a pulire le merde nei cessi». (pp. 124-125)
Il lupo diventa un simbolo che si trasla, anche nei termini della violenza verbale e della disinformazione a mezzo stampa, per rappresentare la paura dell'immigrazione, per sguazzare nei luoghi comuni di pensiero e forze politiche che vedono nell'altro uno spauracchio più spaventoso del Bau-Bau.
L'ironia amara di questa storia è che non c'entrano forze esterne, l'Europa, i Verdi e tutti quelli a cui i cacciatori vorrebbero dare la colpa: la responsabilità è solo la loro. Con le loro tagliole hanno creato il capo branco affamato che, pur di sopravvivere, si riduce ad attaccare i cani, suoi simili. I lupi non dovrebbero comportarsi così; a ben pensarci, ma neanche troppo, nemmeno gli esseri umani dovrebbero farlo. Eppure lo fanno. Non c'è quindi differenza tra noi e ciò che ci spaventa di più; anzi, siamo noi gli artefici del nostro stesso terrore in una spirale di violenza che si può solo cercare di prevenire e fermare con la corretta informazione se proprio non ci si vuole appellare all'umanità. Questo si può declinare in vari campi, dallo scientifico all'umanitario, dal piano narrativo a quello della cronaca quotidiana.
«Ho curato lupi con le ossa fracassate» ha esclamato Marco, «spezzate in mille schegge che uscivano dal corpo, investiti da auto e addirittura da treni, ho tolto dalla loro carne pallini di piombo e pallettoni piantati ovunque [...] Li ho visti sottoposti a pene intollerabili, fino a farmi crescere il dubbio che i lupi non conoscano il dolore. (p. 141)
Ci sono pagine molto vivide in questo romanzo, soprattutto quando si arriva al punto di vista dei lupi. Sembra di percepire la loro sofferenza, la loro fame e la disperazione che li porta a compiere gesti estremi pur di salvarsi e di preservare la propria specie: sarebbe anche facile sostituire la parola "lupo" con la parola "umani". Proprio quando l'autore riesce a farci percepire questa empatia, capiamo che tra noi e un lupo preso nella tagliola non c'è differenza. Sarebbe sufficiente non mettere quelle tagliole.
Giulia Pretta
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