Otranto
di Roberto Cotroneo
La nave di Teseo, 2022
€ 17,00 (cartaceo)
€ 7,99 (ebook)
Avrei detto che ormai conoscevo quell'ora meridiana in cui i dèmoni scelgono di rivelarsi. Quando i raggi del sole piombano dallo zenit, quasi fosse una pioggia di sfolgorî, e tutt'intorno questo cielo saturo di blu, come soltanto a Otranto riesci a vedere, ché da altre parti sembra sbiadito. E in questo cielo blu, in questo sole che annerisce le ombre, avrei detto che si poteva camminare per queste strade tortuose, a gradini e salite, e mura spesse, e porte inespugnabili. (p. 11)
L'uso del condizionale passato continua lungo il primo capitolo come un refrain, introducendoci così ad una storia in cui ciò che è accaduto si confonde immediatamente con ciò che sarebbe potuto accadere o che sembra essere accaduto, in una mente poco lucida quale quella dell'io narrante. Ecco un'altra cosa con cui ci dobbiamo confrontare immediatamente: dobbiamo fidarci dell'io narrante di Otranto? Ci schieriamo con i "voi "a cui si riferisce Velli quando scrive:
E io sfidavo la vostra ragione, le vostre medicine. Svenendo, e mentre svenivo pregavo: una preghiera di cui non sapevo la lingua, ma che sapevo dire come mai era accaduto nella mia vita. La vostra ragione chiama tutto questo: stato confusionale. Solo svenimenti, tremore, e frasi senza senso. Vi ho guardato, tutti: e nulla sarebbe uscito dalla mia bocca; perché voi da me cercavate un senso e io vi leggevo distanti. (p. 15),
oppure siamo pronti a seguire Velli nei percorsi di una razionalità altra, o più semplicemente di una irrazionalità, dato che il territorio della follia viene delimitato accuratamente da ciò che si sceglie come Ragione. L'impressione è che questo tema (dialettica tra follia e ragione, che in realtà sarebbe anche i confini del logos inteso come conoscibilità del reale e come approdo ultimo al Mistero) sia caro a Cotroneo, che a esso è tornato nella sua ultima opera narrativa, Loro.
Ricordiamo, infatti, che Otranto ha in realtà 25 anni (assolutamente ben portati) ed è ora edito nuovamente da La nave di Teseo, nella collana I grandi Delfini. Quindi, rileggerlo oggi ci consente anche di tracciare un percorso, nell'ambito della narrativa di Cotroneo, legato proprio ad alcuni temi che legano i due romanzi in questione: il sacro, il mistero, la conoscibilità e la dicibilità del reale, il limes tra follia e ragione.
Ma veniamo alla trama: Velli è una restauratrice olandese che arriva a Otranto, in una terra in cui le torri sentinelle «si ripetono lungo la costa come un tedioso argomento di paura» (p. 13, squisita e poco occultata citazione di Thomas Stearn Eliot), per lavorare al grande mosaico del dodicesimo secolo della cattedrale. Piano piano però scoprirà che la sua vita è legata misteriosamente alla città salentina, non solo nell'immediato passato familiare, ma anche in un passato remoto, che però nella dimensione onirica in cui il racconto si immerge, sembra tornare costantemente presente. Se il romanzo fosse un inno alla razionalità, troveremmo Velli che ricostruisce non solo le tessere del mosaico, ma la sua stessa storia familiare, per elaborare il lutto devastante e misterioso della scomparsa della madre, affetta da follia, di cui si sono perse le tracce. Ma il romanzo non segue una linea razionale. Parla di un mosaico ed è esso stesso un mosaico, senza centro, in cui, come dicevo, non possiamo neppure fidarci della veridicità di quanto scrive l'io narrante, che ammette di avere il sospetto «di vivere in una zona franca dell'irrazionale» (p.26). A complicare la ricostruzione del mosaico-libro, vi è un altro io-narrante che fa capolino nelle pagine del romanzo, narrando da un imprecisato altrove e da un tempo indefinito. Chi è questo io che intreccia la sua voce con quella della protagonista, di quale storia ci sta parlando? A quale epoca appartiene?
Se in Loro Cotroneo ha scelto di narrare con estrema trasparenza e nitidezza l'oscurità della vita e della ragione, in Otranto sceglie di confonderci in un gioco di miraggi, in modo che siamo esattamente come Velli, quando afferma:
Dubito persino di essere viva, di essere una restauratrice, di essere olandese, e di avere messo a punto il mosaico della cattedrale. (p. 169)
La realtà e la finzione, infatti, si sovrappongono, in un gioco essenzialmente visivo per un romanzo che non solo ha per tema un mosaico misterioso, ma che privilegia le descrizioni basate sulla vista, sui colori, sul contrasto luce ed ombra. Queste tematiche rimandano anche ai mestieri dei genitori di Velli: la madre tagliava diamanti, il padre era un pittore. Così il controcanto della luminosità accecante e demoniaca del Mezzogiorno, è l'ombrosità fiamminga delle tele del padre della protagonista. Lui che le insegnava la vita attraverso i colori, che - come il grande Goethe intuì - emergono dall’interazione fra la luce e il buio. Per consolare Velli dopo una delusione d'amore, ad esempio, il padre le parla del verde Paolo Veronese, un colore che
Era fatto di arseniato di rame. Meraviglioso. Solo che non era un colore stabile. Bastava che fosse esposto alla luce per cominciare a fargli cambiare di tono fino ad annerire. Alla luce i colori rivelano ciò che sono, ti dicono se ci si può fidare. Dovevi guardare meglio quel tuo verde, Velli, esporlo al giorno, mostrarlo al sole. Ti sei fidata: hai pensato che quella brillantezza sarebbe rimasta, e invece ti ingannava. L'arseniato di rame non tollera la luce. (p. 148).
L'universo da cui proveniva Velli non tollerava la luce intensa, un poco come la luce di Arles che illuminò i colori di Van Gogh, rendendoli estranei e irriproducibili per il padre di Velli. E anche in Van Gogh, la luce intensa, meridiana, porta con sé i dèmoni, spalanca il baratro della follia, che probabilmente è legata proprio alla visione di ciò che non deve essere visto. I dèmoni di Otranto (ricordiamo che il primo romanzo gotico viene considerato proprio Il castello di Otranto di Whalpole) sono legati all'invasione dei Turchi nel 1480, quando venne perpetrato un orribile massacro degli abitanti di Otranto, martiri il cui spirito continua ad aleggiare in città nelle leggende popolari. Così come aleggia Akmed Pascià, il massacratore degli idruntini, che narra a Velli le storie accadute nel lontano XV secolo, a cui dice di appartenere. È vero? È un impostore?
Anche qui ci perdiamo nei labirinti della narrazione, intricata e densa come il mosaico di Pantaleone.
In un libro che ha la visione come tematica centrale, non sorprende però che un personaggio chiave, attorno a cui si intreccia la storia e che svolge la funzione dell'altro io narrante, sia cieco: un Tiresia, un Borges, un veggente di ciò che agli occhi sfugge, un fantasma.
Anche Velli, dichiara di sentirsi libera solo la notte, quando le luci non tormentano più i suoi occhi.
Otranto è un libro ammaliante, difficile da recensire o di cui offrire una sinossi, perché le sequenze descrittive sovrastano quelle narrative e perché chiudiamo il libro incerti se una storia effettivamente vi sia stata o se tutti i personaggi non sono altro che visioni della mente di Velli, sognati, immaginati, illusori. Descrivere il sogno senza dileguarne la nebulosità onirica, ma senza cedere ad un caotico affastellarsi di nonsensi; raccontare una storia in cui il tempo cronologico si dissolve e in cui il passato e il presente si sovrappongono, è una sfida al logos, quindi alla scrittura. Sfida di certo vinta da Cotroneo, che ci consegna un romanzo che Maria Corti ha definito, come meglio non si può fare, "un arabesco lirico".
Deborah Donato
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