L'ultimo libro di Emma Olsen
di Berta Dávila
Aguaplano, 2022
Traduzione di Marco Paone
pp. 104
€ 15 (cartaceo)
Un testo di un centinaio di pagine di una scrittrice al suo esordio con il romanzo è il volume scelto dalla casa editrice umbra Aguaplano come prima pubblicazione straniera nel proprio catalogo. L’ultimo libro di Emma Olsen rappresenta molte cose oltre a questo dettaglio editoriale: è un romanzo scarno nel numero delle parole ma non nel sentire, plasmato su una lingua misurata, asciutta – che vive nella traduzione attenta di Marco Paone – e un gioco metaletterario che affabula il lettore fin dalla prefazione; ed è, anche, l’esordio di una scrittrice gallega che ha scelto di ambientare la storia in una sperduta cittadina del Midwest americano, Faith, scrollandosi velocemente di dosso stereotipi e mistificazioni. Non lo so se Dávila abbia o meno familiarità con la provincia americana più profonda, non importa: la sensazione è che Faith sia ben oltre un puntino minuscolo su una carta geografica, ma rappresenti un certo sentimento della vita di provincia, da un capo all’altro dell’Oceano. Quali che siano le ragioni autoriali che l’hanno spinta a scegliere la provincia nordamericana come luogo letterario per la storia da raccontare, il risultato non cambia: Dávila maneggia la materia con maestria, non cade in alcun tranello del provincialismo o di un certo immaginario stereotipato, ma costruisce una narrazione ben salda su ciò che ha catturato il suo interesse e che funge da centro nevralgico della storia.
Che cos’è questo centro? Il rapporto con il passato, il segreto e la colpa che la protagonista Emma Olsen si porta dietro da tutta la vita e che adesso, malata terminale, è pronta a confessare sulla pagina scritta, ripercorrendo la propria infanzia e adolescenza a Faith e, soprattutto, il rapporto assoluto con Clarissa, l’amicizia-ossessione che per molto tempo le ha legate.
So benissimo perché ritorno in questo posto, per raccontare la storia che non ho mai osato raccontare, e non mi dispiace, non più, che il mio tempo stia per finire. (p. 11)
Dávila costruisce la storia di una scrittrice di successo che torna nella sua città d’origine per fare i conti col passato e raccontare la sua ultima storia, quella più necessaria e vera, prima di morire; restiamo ammaliati dai rimandi metaletterari e i confini si confondono efficacemente, col risultato che questa storia appare forse ancora più intensa, dolorosa, malinconica e cruda. Le regole narrative che Dávila segue sono ben bilanciate, il mistero aleggia come uno spettro fin da principio ma è solo nell’epilogo che troverà la sua degna conclusione, la lingua è costantemente tesa, si mostra e si sottrae abilmente, in un gioco che regge molto bene nello spazio breve di questo romanzo. Insiste quanto basta sul segreto che si porta dietro e l’attesa dello svelamento finale – che non necessariamente potrebbe coincidere con la risposta a ogni domanda – in fondo è solo uno dei dettagli che compongono una storia di colpe, fratture, sentimenti complessi, che si articola in un luogo ai confini del tempo e dello spazio.
Aleggia su ogni cosa un senso di provvisorietà: i rapporti tra gli adulti mostrano per primi i cedimenti, le crepe sulla facciata, e sia la famiglia di Emma quanto quella di Clarissa vanno presto in pezzi, con le conseguenze che tali abbandoni comportano:
A quel tempo nessuno sapeva che la mamma e il signor Logan sarebbero andati via presto per rompere tutti gli archetipi che avevamo sognato, che sarebbero scappati facendo sì che noi, quelli rimasti, fossimo diversi, ugualmente convenzionali, ma più melodrammatici. (p. 33)
È, naturalmente, anche la provvisorietà della vita stessa, consapevoli della caducità dell’uomo incarnata dalla protagonista e voce narrante, in questo suo ultimo viaggio. E, ancora, è la transizione dall’infanzia all’età adulta, quel senso di tragica fine che porta in sé già i segni della rovina. Per una strana associazione di idee mi ha fatto pensare ai bambini di Rincorrendo l’amore di Nancy Mitford, l’infanzia che va morendo nell’adolescenza, ma è un topos ricorrente, tanti tantissimi potrebbero essere gli esempi, da ultimo in termini di letture Due settimane in settembre di R.C. Sherriff da poco uscito per Fazi editore.
In questa provvisorietà si incastra il mistero, la colpa, e il rapporto complesso, ammaliante, totale, tra Emma e Clarissa.
Ma cancellare la presenza di Clarissa in me significava cancellare troppe cose; significava tentare di amputare, nel ricordo, una gamba o un braccio alla persona che ero stata, e ricostruire la memoria con l’immagine di quell’assenza. (p. 61)
È uno sguardo a ritroso, dopo che tutto è accaduto, dopo che Emma ha lasciato Faith ed è infine tornata, per chiudere i conti. Uno sguardo, quindi, che è filtrato dal tempo, dall’età adulta, dalla vita che c’è stata nel mezzo. E che permette di osservare le cose da una certa distanza, forse di comprenderle. Nel rapporto a tratti morboso tra Emma e Clarissa c’è l’essenza più interessante di questa storia, di cui scalpiamo appena la superficie e non comprenderemo appieno. Perché è proprio questo l’aspetto interessante e più onesto del romanzo di Dávila: non troveremo tutte le risposte, non è concesso al lettore quel tipo di soddisfazione quando tutte le tessere del puzzle paiono trovare la giusta collocazione; no, Dávila racconta una storia per mezzo di un narratore parziale, inaffidabile a tratti, e sceglie di mostrarci solo le increspature sulla superficie del lago da cui intravedere l’abisso.
Perché sono proprio quelle increspature a fare la storia, ad essere la storia stessa.
Scegliere cosa è stato importante e cosa no, oltre a Clarissa, che oscurava tutto il resto. (p. 80)
Debora Lambruschini