Siria mon amour
di Amani El Nasif e Cristina Obber
Piemme, 2014
pp. 166
€ 8,90 (cartaceo)
€ 6,99 (ebook)
Amani ha sedici anni e vive a Bassano del Grappa
da quando ne ha tre. La sua vita è fatta di scuola, uscite al parco con le
amiche, appuntamenti di nascosto con Andrea, il primo grande amore, di un
lavoro in cartoleria tanto desiderato, ma anche della convivenza con i
pregiudizi sottili che si devono subire quando si è una ragazza musulmana in
una piccola comunità.
Se ti sentono parlare in arabo ti possono tollerare per educazione o perché questo li fa sentire buoni e progressisti, ma farne entrare uno in famiglia è un’altra storia. E io l’avevo respirata tutta quest’altra storia, fino in fondo. Una storia fatta di frasi gentili, di domande curiose come “come si fa il cous cous?”, di sguardi che cercano di penetrarti per capire come difendersi dal male che potresti portare con te e magari un giorno scagliare contro la loro normalità innocente. (p. 9)
Basta però il tempo, la conoscenza personale, per dissipare i dubbi della
gente, e l’esistenza trascorre quieta, routinaria. Anche per questo Amani
accoglie con entusiasmo la prospettiva di un
viaggio in Siria, terra d’origine mai realmente vissuta e quindi mitizzata nella fantasia e tutta da
riscoprire. Devono essere solo cinque giorni, il tempo di rimediare a un errore
del passaporto, conoscere i numerosi parenti, e comprare qualche souvenir. Le
verità è però ben diversa da come la ragazza la immagina: la madre, abbandonata
sei anni prima da un marito egoista e violento, vuole strappare la figlia a un’esistenza occidentale haram, peccaminosa e corruttrice, riportandola nel grembo di
una famiglia tradizionalista e
profondamente religiosa. Il villaggio di Al Karatz si fa presto la peggiore
delle prigioni. Lo straniamento culturale, per chi è abituato alla vita in
Occidente, è quasi immediato, anche se la situazione degenera progressivamente,
attraverso piccoli indizi che si fanno presagi di qualcosa di quasi indicibile:
Quella sera mi sono resa conto che esistono mondi paralleli che seguono la stessa linea del tempo, mi sembrava di essere dentro un capitolo di storia in cui si parla di una popolazione remota, oramai estinta. (p. 26)
Amani si trova costretta a indossare abiti che nascondono il suo corpo, promessa sposa a un uomo che non può
amare e che la tratta come se fosse già una sua proprietà, senza nessun
alleato. Anche le cugine, con cui stringe amicizia, sono abituate e succubi di
una vita in cui, in quanto donne, sono destinate
all’accudimento e all’obbedienza. L’incapacità della ragazza di conformarsi
alle regole che le vengono imposte, e la nostalgia pulsante, sempre viva, per
l’Italia che spera ancora, ma sempre più debolmente, di poter rivedere, la
rendono vittima perfetta della violenza
e della rabbia di chi non riesce a piegarla.
E su quella terra sbiadita, sotto quel sole e quei vestiti spessi, mi ha riempito di botte, per la prima volta. Pochi istanti e, vista dal cielo ero una macchiolina nera nella vastità di un universo ostile e sconosciuto. Il sole scottava, ma la mia pelle bruciava di rabbia. (p. 39)
Il romanzo, autobiografico, risulta
particolarmente difficile da digerire perché mostra un male che non viene
dall’esterno, ma dal cuore stesso del nucleo famigliare: sono infatti i suoi genitori
(la madre, convinta di agire per il suo bene, e il padre, ritornato apposta per
poter riprendere la sua posizione di potere) a decidere per il suo futuro. Tra
le pagine di un romanzo breve, si snodano i tempi lunghi di una segregazione, dell’umiliazione sistematica, del
continuo tentativo di domare uno spirito indocile, anche attraverso veri e
propri rituali di esorcismo (“il male non
usciva dal mio corpo, e io ero la ribelle ragazzaccia di sempre”, p. 92).
Pur essendo adatto a sollecitare la riflessione in qualsiasi lettore, il volume
si presta particolarmente a una lettura a scuola o per la scuola (nonostante la presenza, da considerare in
anticipo, di alcune espressioni volgari, mimetiche rispetto al parlato
giovanile).
La storia di Amani El Nasif ha per un lettore
adolescente tutta l’attrattiva della storia vera, ed è scritta con un linguaggio semplice e lineare, ma non banale,
che a tratti prende slancio in alcune riuscite descrizioni d’ambiente. Non
risparmia la durezza,
inevitabilmente derivante dall’argomento trattato, ma non assolutizza mai i giudizi: quella di cui la protagonista è
vittima è una mentalità retrograda e ancora diffusa, ma non l’unica possibile.
Anche durante la sua traumatica, dolorosa, permanenza in Siria, Amani può
incontrare modi diversi di pensare, di intendere le relazioni famigliari, i
rapporti tra uomo e donna, o tra genitori e figli. È il contesto, unito
all’educazione ricevuta, a segnare gli individui. Tra Aleppo e la campagna
circostante passa un intero universo, ma le differenze possono sussistere anche
tra diverse realtà rurali, magari distanti solo pochi chilometri, come Al
Karatz e Litzeder, dove vivono due differenti rami della sua famiglia. Non è
quindi la vita in Siria ad essere condannata, e anzi la Siria stessa, così ricca di
contraddizioni, di complessità, così martoriata dalla storia recente, viene
comunque riconosciuta come terra in cui affondano le sue radici, e quindi una
parte, non sradicabile, di sé.
Allo stesso modo, oggetto di riflessione e
critica non è certo l’Islam in senso lato, ma una sua declinazione estremista
che ne piega e deforma il messaggio. È da quella che bisogna rifuggire – non
certo dalle proprie origini, come l’autrice bada bene di ricordare. Una lettura condivisa o mediata, può quindi
suscitare dibattiti profondi e importanti, anche nell’ottica di una maggiore
comprensione del mondo in cui i ragazzi vivono. Inoltre, il che non guasta, Siria mon amour è anche, dopotutto e
inaspettatamente, una storia a lieto fine, in cui si mostra da un lato come non
si debba mai disperare, e dall’altro come non ci siano ferite che non si
possano, con il tempo e la giusta cura, far fiorire.
Carolina Pernigo
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