di Tove Ditlevsen
Fazi, ottobre 2022
Traduzione di Alessandro Storti
pp. 176
€ 15 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)
Perché leggere il memoir di una poetessa e scrittrice danese del secolo scorso, di cui forse conoscevamo solo il nome e magari alcuni versi sparsi? Che cosa c’è nella sua Trilogia di Copenaghen da valere il plauso della critica internazionale e l’attenzione dei lettori? In Italia la riscoperta di Tove Ditlevsen è opera di Fazi editore – da sempre attento a recuperare piccole gemme letterarie del passato – che lo scorso anno aveva inaugurato la pubblicazione con il primo volume, Infanzia, nella traduzione di Alessandro Storti; da poche settimane è in libreria il secondo, Gioventù, sempre curato da Storti, e anche in questo caso si è acceso velocemente l’interesse di pubblico e critica intorno all’opera di Ditlevsen.
Ciò che ammalia di questa trilogia è, prima di tutto, la scrittura, resa pienamente da Storti: parole che graffiano la pagina, cesellate con cura artigiana, gli echi lirici che attraversano la narrazione, stralci di componimenti giovanili e una prima persona che cattura il lettore e lo conduce al centro di quel mondo piccolo raccontato con cruda onestà da Ditlevsen. È un memoir, ma è nella capacità dell’autrice di guardare l’esperienza tutta e il mondo in cui si muove a rendere la lettura particolarmente interessante, come solo certa autofiction e ibridismi di genere sanno fare.
Ditlevsen scava nel ricordo personale, nel proprio vissuto, scandaglia la memoria, e ce lo restituisce in tutta la sua limpida brutalità, la nostra lettura forse ancor più partecipe per la consapevolezza di quello che è stato il destino dell’autrice, le difficoltà letterarie, la dipendenza, l’instabilità sentimentale, il suicidio. Ma qui, in Infanzia prima e adesso in Gioventù, non ci sono ancora tutte le ombre dell’età adulta, l’abisso della depressione, l’alcolismo, c’è invece in questo secondo volume la caparbietà della giovinezza, il sogno che si scontra con la realtà, la fatica, i primi passi nel mondo degli adulti, il desiderio di emancipazione, pratica e affettiva.
La gioventù è davvero il centro nevralgico della narrazione, intorno a cui si intreccia e dipana tutto il resto, osservato attraverso questa lente. È il confronto generazionale, i rapporti sempre più complicati con il padre – figura sfumata, costantemente in bilico tra orgoglio per le ambizioni letterarie della figlia e sguardo impietoso su ciò che ci si aspetta da una donna – e la madre, soprattutto. Sfuggente, incapace di affetto e comprensione, intrappolata in una vita che la opprime ma che non sa immaginare diversa per la figlia, invadente, crudele. Forse soltanto sola. Sempre di più, ora che la bellezza e la gioventù stanno svanendo, ora che entrambi i figli lasciano la casa dei genitori:
Lei, giovanile com’è, ha sempre sentito il bisogno di un’amica molto più giovane. Ma nella sua chioma nera è comparso qualche capello grigio e i fianchi le si sono appesantiti. Ecco perché va così spesso ai bagni di Lyrskovgade, e quando torna a casa parla con tanto entusiasmo di quanto sono lardose le altre signore. (p. 20)
Se nel primo volume le mancanze e la durezza materna trafiggevano la bambina Tove come pugnali, ora pare esserci una diversa accettazione e più della povertà di gesti affettuosi è l’invadenza e il controllo a pesare maggiormente, portando alla scelta di affrancarsi il prima possibile dalla famiglia, conquistare il proprio spazio personale, la propria libertà. Per respirare, per coltivare la propria voce.
Mentre salgo le scale del palazzo posteriore, mi sento assalire dalla paura di non riuscire ad affrancarmi mai da questo luogo in cui sono nata. […] Finché abito qui sono condannata alla solitudine e all’anonimato. (p. 37)
Tove si muove nel mondo degli adulti, priva di un adeguato equipaggiamento affettivo e di conoscenze. Le relazioni personali sono complicate dalla sua inesperienza e mancanza di fiducia, le amicizie la dominano e modellano a proprio piacimento. Ma c’è lo stesso una fame vorace di vita, di esperienze, di libertà finalmente conquistata. A caro prezzo, con le ristrettezze dell’esiguo stipendio che se ne va nell’affitto di un’umile stanza, con lavori che si susseguono mortificanti e fallimentari, mentre sembra non esserci mai tempo per godere davvero della propria gioventù.
È questa, la cosa strana, in me: scrivo poesie, ma al tempo stesso sono una persona molto comune. Come tutte le altre giovani donne, vorrei sposarmi, fare figli e avere una casa tutta mia. C’è una certa pena, una certa fragilità, nell’essere una ragazza che si guadagna il pane da sola. Non si vede alcuna luce in fondo a questa strada. E vorrei tanto godermi il tempo che ho, anziché dover sempre venderlo. (p. 162)
È difficile, ma avere uno spazio suo, dove poter stare sola, dove pensare e scrivere, è per Tove la maggiore conquista, che non la fa cedere ai ricatti materni, alle scomodità, neanche quando l’intolleranza verso la padrona di casa simpatizzante nazista si fa sempre più forte. Perché ancora di più è forte il desiderio di essere libera, di mettersi alla scrivania e battere sui tasti della macchina da scrivere, e comporre un verso dopo l’altro quello che sogna un giorno diventerà un libro, un libro vero. Si delinea più marcato in questo capitolo il sogno letterario di Ditlevsen, il percorso accidentato nel mondo editoriale, gli incontri e le porte chiuse e, ancora, il suo senso di estraneità, il peso insopportabile per la propria infanzia di povertà e ignoranza. Non basteranno le pubblicazioni, l’affetto del pubblico e della critica, i riconoscimenti del valore della propria opera ad affrancarla del tutto da quel passato, dall’odore della povertà, dall’inadeguatezza, dalla sensazione di non essere accettata fino in fondo da quell’ambiente che brama da sempre. Ma è davvero possibile affrancarsi dalla nostra infanzia? Nel bene e nel male, incide tanto profondamente nella nostra identità, scava solchi e si sedimenta in noi così a fondo, restando sempre lì.
E mentre Tove tenta di emanciparsi, di trovare la propria voce e farsi strada nella vita adulta, intorno a lei il mondo brucia: l’ascesa di Hitler, lo scoppio della guerra, sono un’ombra che la spensieratezza della gioventù tenta in ogni modo di scacciare, con il lavoro, con le serate fuori, con le amicizie e gli amori effimeri. Ma esiste e si fa sempre più minacciosa. E allora niente sarà più lo stesso.
Con questo secondo capitolo Ditlevsen consegna al lettore tutte le contraddizioni dell’adolescenza che cede il passo all’età adulta, le aspirazioni e le cadute, in un contrasto tra vita e morte, gioventù e vecchiaia, che attraversa l’opera tutta e la trascina fuori dai limiti del tempo e dello spazio. Lo spettro della guerra che incombe, la sofferenza e la perdita e, dall’altra parte, la felicità dei primi riconoscimenti letterari, il luccichio di un mondo fino a quel momento solo sognato, la scoperta dei sentimenti e del sesso. La vita.
Di Debora Lambruschini
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