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Un racconto delicatissimo che scava nel rapporto tra madre e figlia: Jessica Au, "Tempo di neve"

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Tempo di neve
di Jessica Au
Il Saggiatore, settembre 2022

Traduzione di Federica Merati

pp. 148
€ 16 (cartaceo)
€ 7,99 (e-book)


Libro d'esordio per l'autrice Jessica Au, "Tempo di neve" vince quest'anno il Novel Prize, il premio biennale per le opere di narrativa scritte in lingua inglese di scrittori editi e non, che ha come statement il riconoscimento di lavori che esplorino ed espandano le possibilità della forma (cito testualmente).
Il fatto che questo libro abbia vinto un premio con un così ambizioso proposito sicuramente alza l'asticella delle aspettative.
Si tratta di una novella, non di un romanzo vero e proprio, che racconta di una vacanza a Tokyo con protagoniste una madre e una figlia, la prima cantonese, nata e cresciuta a Hong Kong, la seconda in Australia e dunque "più moderna". Il proposito di quest'ultima è di riavvicinarsi alla madre, visto che le due ormai vivono lontane: attraverseranno la città, visiteranno gallerie d'arte, centri commerciali, templi, passeggeranno per le vie di Tokyo, sempre fianco a fianco.
Per tutto il tempo mia madre restò al mio fianco, quasi temesse che se ci fossimo separate il flusso della folla, come una corrente, ci avrebbe impedito di tornare l'una all'altra, mandandoci sempre più alla deriva e allontanandoci ancora e ancora. (p. 7)
Tra le descrizioni particolareggiate del presente, la narratrice - ovvero la figlia - salta la linea temporale portandoci anche nel passato, grazie a dei lunghi flashback: ci parla quindi del marito Laurie, della sua vita quando era una studentessa, dei suoi ricordi da bambina quando la famiglia era ancora a Hong Kong, e contemporaneamente introduce, come fosse un album fotografico, anche altri personaggi importanti, la sorella e uno zio della madre (la cui storia è una delle mie parti preferite del libro). Tutto ciò ha lo scopo di recuperare i ricordi perduti tra la generazione della madre e quella della figlia. Si potrebbe dire che sia il fine ultimo del viaggio, quello di cercare di ricordare il passato.
Nelle descrizioni dell'autrice c'è un'attenzione all'estetica, ho trovato alcune scene quasi da Studio Ghibli: due persone che mangiano ramen davanti a una vetrata, un tempio sotto la pioggia, una donna in bici mentre regge un ombrello con una mano sola, dei binari di un treno. 
Ognuno non mostrava il mondo com'era, ma come avrebbe potuto essere, una versione alternativa di sogni e suggestioni che, al solito, erano migliori della realtà e quindi sempre affascinanti. (p. 40)
Il fulcro di tutta la narrazione è la decodificazione dei rapporti familiari, non solo quello madre-figlia, ma anche sorella-sorella, sorella-fratello e marito-moglie, senza per forza scomodare strutture narrative: l'autrice semplicemente fa parlare il personaggio, in un discorso intimo e per questo senza briglie, mentre si pone domande importanti sulla vita, sull'essere genitore, sulle credenze dell'anima. Dunque tematiche di un certo spessore, pur essendo un libro breve.
Tutta la novella è permeata da una delicatezza evanescente, come se assistessimo al viaggio delle due donne osservandole attraverso la nebbia. La prosa è rarefatta, chirurgica, non esistono capitoli, nessun discorso diretto, è un ininterrotto flusso di coscienza della protagonista. Per questo motivo (e anche perché sono poco più di cento pagine) consiglio di leggerlo tutto d'un fiato, per poter seguire il filo del discorso senza sospensioni. 
Lo consiglio agli amanti della prosa in stile giapponese, senza tagli, senza barocchismi, e a chi cerca di approfondire la profondità dei rapporti con le persone amate.

Deborah D'Addetta