L'ultima nomade
di Shugri Said Salh
Mar dei Sargassi Edizioni, settembre 2022
Mar dei Sargassi Edizioni, settembre 2022
Traduzione di Elisabetta Crisafulli
pp. 255
€ 18 (cartaceo)
€ 18 (cartaceo)
Pensato e scritto come un memoir, questo libro dell'autrice somala Shugri Said Salh viene pubblicato nel 2021 negli Stati Uniti, vincitore e finalista di parecchi premi, tra cui il Gold Nautilus Award. Mar dei Sargassi Edizioni, giovane casa editrice molto attenta alle tematiche sociali, anche quelle meno risuonanti, lo pubblica questo settembre, con la traduzione di Elisabetta Crisafulli.
Si tratta di una lunga e densa autobiografia che dalla metà degli anni '70 ci porta ai giorni nostri, nella quale l'autrice racconta la sua vita da nomade prima, da donna "moderna" dopo. Proclamandosi una storyteller in una famiglia di storytellers descrive minuziosamente, quasi come se il libro fosse anche un saggio antropologico e non solo un racconto personale, come si sopravvive nel deserto, quali sono le tradizioni dei clan nomadi, come vengono viste le donne in una società (ancora) fortemente misogina e patriarcale, quali sono i legami d'amore e d'affetto che possono alleviare un'esistenza così dura.
Si tratta di una lunga e densa autobiografia che dalla metà degli anni '70 ci porta ai giorni nostri, nella quale l'autrice racconta la sua vita da nomade prima, da donna "moderna" dopo. Proclamandosi una storyteller in una famiglia di storytellers descrive minuziosamente, quasi come se il libro fosse anche un saggio antropologico e non solo un racconto personale, come si sopravvive nel deserto, quali sono le tradizioni dei clan nomadi, come vengono viste le donne in una società (ancora) fortemente misogina e patriarcale, quali sono i legami d'amore e d'affetto che possono alleviare un'esistenza così dura.
Potrebbe sembrare tutto terribile, ma Sugri Salh apre anche a episodi felici, specie quelli con la sua ayeeyo, sua nonna, e quelli con sua madre, lasciando spazio anche a considerazioni molto intime e toccanti. Come altrettanto intense sono le pagine dedicate alla descrizione di una pratica purtroppo ancora molto comune in Africa, ovvero la MGF, la mutilazione genitale femminile.
Essendo somala, nomade e donna, era inevitabile che anche lei ne venisse sottoposta. Non si risparmia, di proposito, nell'esposizione clinica di tutta la faccenda, facendo rabbrividire.
Con il coltello parallelo al mio corpo, la guaritrice mi recise bruscamente la clitoride alla radice e la gettò via. Un uccello, che volteggiava in cielo sopra la mia testa, improvvisamente si tuffò in picchiata, strappò da terra la mia femminilità e volò nuovamente in alto col proprio bottino [...] Il cibo è cibo nel deserto, che si tratti di una clitoride gettata via o di carne di capra scartata. (p. 87)
In queste poche parole vi sono condensate tutta complessità, le contraddizioni e la durezza di una vita sbocciata dall'altra parte del mondo, talmente lontane (ma forse meno di quanto pensiamo?) dalla nostra emancipazione occidentale che non possiamo non indignarci. Eppure, la bambina che è stata Shugri ne era felice, perché quel rito faceva parte di una tradizione radicata nelle fondamenta della sua cultura.
Il libro prosegue quindi, abbandonando una prima fase d'infanzia, tutto sommato accettabile, per tuffarsi nel pieno dello scoppio della guerra civile a fine anni '80 che costringerà Shugri Salh a fuggire in Canada con un visto da rifugiata. Tra il principio e la fine, ci descrive i suoi spostamenti di città in città, il suo periodo in un orfanotrofio, il rapporto con le sorelle e i fratelli e i continui tentativi di violenza che era costretta a subire. In un luogo come la Somalia:
Non è un libro facile. La narrazione è densa, serrata, in alcuni tratti troppo satura, ma chi è interessato alle testimonianze vere, alle vite vissute lontani dalla comodità del mondo occidentale, non può perderlo.
Il libro prosegue quindi, abbandonando una prima fase d'infanzia, tutto sommato accettabile, per tuffarsi nel pieno dello scoppio della guerra civile a fine anni '80 che costringerà Shugri Salh a fuggire in Canada con un visto da rifugiata. Tra il principio e la fine, ci descrive i suoi spostamenti di città in città, il suo periodo in un orfanotrofio, il rapporto con le sorelle e i fratelli e i continui tentativi di violenza che era costretta a subire. In un luogo come la Somalia:
se una ragazza veniva stuprata, la colpa ricadeva su di lei, per aver fallito nel proteggere la propria verginità. "Chi ha dato alla luce questa figlia?" avrebbero domandato, e la madre della giovane sarebbe stata umiliata ancora di più per il crimine di aver messo al mondo una simile ragazza (p. 84)I passaggi che riguardano la donna e la sua condizione sono molti, ma questa non è l'unica tematica affrontata. Il libro parla anche di legami, di rivendicazioni, d'emigrazione, di geopolitica. Getta un ponte tra due continenti, l'Africa e l'America e dunque tra due mondi dalla mentalità differente. Probabilmente il libro ha avuto così successo negli Stati Uniti perché molti afroamericani hanno avvertito la storia di Shugri come la propria, hanno sentito l'eco dei proprio antenati risuonare nelle pagine. Una storia di molti allora, non solo dell'autrice.
Non è un libro facile. La narrazione è densa, serrata, in alcuni tratti troppo satura, ma chi è interessato alle testimonianze vere, alle vite vissute lontani dalla comodità del mondo occidentale, non può perderlo.
Deborah D'Addetta
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