Magnificat
di Sonia Aggio
Fazi, 2022
pp. 201
€ 17,00 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)
È
l’estate del 1951, calda e scossa da temporali che si abbattono improvvisi
sulle pianure del Polesine, e altrettanto rapidamente se ne vanno. Protagoniste
di Magnificat sono Norma e Nilde, più
che cugine, quasi sorelle da quando un bombardamento le ha lasciate entrambe orfane.
A separarle un evento inspiegabile:
una caduta dalla bicicletta e Norma cambia; il sangue sulle sue ginocchia e il
rosso delle ciliegie che le macchiano le tasche e la bocca si fanno quasi
profezia degli elementi e dei sentimenti primordiali che si stanno
per scatenare. La giovane inizia a comportarsi in modo strano: risponde male,
assume atteggiamenti violenti, e all’avvicinarsi di ogni nubifragio scappa nei
campi e torna selvatica, stropicciata, ebbra
non si sa se di paura o di vita:
Norma […] esce senza coprirsi, pallida e furente, i pugni chiusi sui fianchi. Quando torna - al tramonto a tarda notte - ha i piedi nudi e sporchi di fango, ma i suoi capelli sembrano di bronzo, il suo viso splende come la luna, e fissa ogni cosa con gli occhi spalancati, pieni di eccitazione. (p. 27)
Con una prosa evocativa, sensoriale,
che rende materici i colori e i profumi dei campi riarsi, dei tramonti
infuocati, Sonia Aggio delinea i caratteri contrapposti delle due ragazze. La
prima ci appare nella sua vitalità intensa, nei sentimenti esasperati,
nell’animalità con cui lampeggiano i suoi occhi scuri e scopre i denti quando
viene messa all’angolo; la seconda invece nella sua medietà, i suoi timori, la
delicatezza del suo sentire. Il comportamento indefinibile di Norma spinge
Nilde, rimasta per la prima volta sola, a chiudersi sempre in più in se stessa.
Il rapporto, strettissimo, tra le due, si incrina. L’autrice adotta un fraseggio sincopato, che restituisce i
non detti, i discorsi interrotti, i gesti e gli sguardi, e contribuisce a far
crescere anche nel lettore una tensione derivata da una non piena comprensione.
Solo oltre la metà del romanzo, nel momento in cui cambia la prospettiva narrativa e l’intera vicenda viene raccontata
nuovamente dal punto di vista di Norma, si inizia a chiarire il quadro generale
– si percepisce con ancora maggior forza il dramma celato nella trama. Si
riguarda quindi con occhi nuovi al terzo
grande protagonista del romanzo, il paesaggio, con la sua pianura, le sue
acque, i suoi cieli; prima famigliare, poi sempre più estraneo quanto più si
approssima la grande alluvione.
In
una notte di tregenda, in cui il buio è interrotto solo dal pallido baluginare
di fari fuggitivi, l’esondazione del Po è restituita solo attraverso il rumore
dell’acqua, che sfonda, scroscia, serpeggia. Quell’acqua che è anche al cuore
delle leggende e delle tradizioni di una terra, l’acqua che
mormora, seduce e attira a sé. È proprio intorno al mito della “Signora del fiume”, la “Madonna della vigna, […] Colei che dilania,
[…] la Madre degli incubi” (p. 130), che si articola la vicenda. È lei,
incarnazione di ogni bene e di ogni male, della vita e della morte, sempre in
bilico tra sacro e profano, tra terrore e meraviglia, a esigere regolarmente il
suo sacrificio. Sonia Aggio contamina sapientemente una narrazione
realistica con un elemento perturbante, riporta sulla pagina il legame
viscerale di un popolo con la regione che abita.
Ancora più a lungo camminerai per sfuggire al fiume, illudendoti che basti distogliere lo sguardo della sua superficie scintillante, ignorando gli argini interrati che calpesti, le vene di sabbia che ti avvolgono. Ovunque andrai, lo porterai con te. […] Vicino e lontano, passato e presente – qui sono la stessa cosa. (p. 199)
Se rispetto a questo Nilde rimane estranea, quindi inconsapevole, pare essere
l’unica: Norma risponde a un richiamo
antico, e anche le donne del paese (più degli uomini, che nella narrazione
compaiono solo sporadicamente, come comprimari) intuiscono e sussurrano la
verità riunendosi nelle vie o sul sagrato della Chiesa. Solo i sogni, come le
leggende, forniscono un accesso alla verità, quello che manca però troppo
spesso sono gli elementi per interpretarli.
Magnificat si presenta come un’opera
d’esordio che riesce a essere diversa e
nuova, inaspettata e potente nel panorama editoriale. Uno degli elementi di
maggior efficacia, e commovente proprio perché per lo più taciuto, è il modo in
cui viene narrato il rapporto tra le due protagoniste, rese sorelle dalla sorte
più che dal legame parentale, ciascuna impegnata in una lotta feroce e segreta per proteggere l’altra a sua insaputa.
L’idea di lasciarla le spezza il cuore. Piange e lascia che le lacrime le restino sul viso. […] All’improvviso ricorda l’idea di scappare a Venezia. Immagino Nilde che sorride sorpresa verso i palazzi bianchi e rosa. Indosserebbe il cappello di paglia con il nastrino blu, un vestito azzurro come i suoi occhi. Scuote la testa. L’immagine sbiadisce. Norma toglie il fazzoletto verde dalla caviglia e lo avvicina al viso. Nilde è l’unica cosa che conta. (p. 164)
Nella continua tensione, violenta e
lacerante, tra sangue e destino, tra cuore e richiamo del fiume, si
consumano le sorti di due giovani donne, sopraffatte, ma mai vittime, di forze
che le trascendono. E anche se la costruzione narrativa per intermittenze temporali
suggerisce fin dalle prime pagine l’esito della storia, e poco alla volta ne
mostra le radici profonde, lontane nel passato, il lettore resiste e non si
rassegna, sperando a suo modo di poter trovare una qualche forma di lieto fine.
Carolina Pernigo
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