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"Avremo anche noi dei bei giorni". Le lettere di Zehra Doğan a Naz Öke, dalle carceri di Tarso e Diyarkabir

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Avremo anche noi dei bei giorni
di Zehra Doğan
Fandango, 2022  

Traduzione dal francese: Manuela Madamma
 
pp. 240
€ 22.00 (cartaceo)

 
   “Il paese più felice è il mio cuore” (p. 74)

Condannata per aver diffuso un disegno di denuncia delle violenze dell’esercito turco e costretta a passare più di due anni nel carcere di Diyarkabir, che pare “concepito per opprimere” (p. 13) nelle sue strutture anguste, nei corridoi soffocanti, nella proibizione di introdurre piante (o foto di paesaggi), Zehra Doğan riesce a trovare nella speranza, nell’arte, nella corrispondenza con l’esterno, un impulso al miglioramento di sé. La convivenza forzata e strettissima con le compagne di prigionia la aiuta a uscire da ogni forma di egoismo, a ricordare che “la vita non si riduce a me stessa” (p. 12), a cercare nelle privazioni modi nuovi per raccontare le storie che raccoglie intorno a sé. Da qui l’importanza delle lettere, che permettono di mantenere un legame con tutto ciò che è fuori, non solo le persone, ma anche l’attesa di un futuro diverso, più volte ribadita (“tutto ciò avverrà, sicuramente, avremo anche noi dei bei giorni”, p. 11).
Nelle sue missive, tre parole ricorrono di frequente, variamente declinate: forza, vita, creare. Le vediamo nell’accezione positiva, a celebrare una dimensione di resistenza, ma anche nel loro vacillare, farsi insicure nei momenti di maggior fragilità, quando il dolore diventa più profondo di fronte a una ingiustizia che non è individuale, ma collettiva:
È come se fossimo un popolo maledetto. Né infanzia, né giovinezza. Non ci hanno lasciato nulla da vivere. Se ce lo domandassero, forse sapremmo descrivere la felicità meglio di ogni altra cosa, perché ne abbiamo fame. […] La vita è dura, ma se sei curdo o se appartieni a un popolo oppresso di un paese qualunque, allora la vita è dieci volte più dura. (p. 15,16)
Per Zehra, si deve realizzare innanzitutto un mondo nuovo, in cui sia superato il patriarcato, in cui la scienza e l’arte siano libere e lo Stato non abusi del proprio potere per imporre un’ideologia omologante, repressiva di ogni forma di diversità. Fino a quel momento, si può operare nel proprio piccolo, senza rassegnarsi.
Ecco allora che Zehra legge libri, scrive racconti, costruisce pennelli con le piume d’uccello, sfrutta carta di giornale, etichette, rifiuti come supporto per le proprie opere, realizza i pigmenti, se non trova di meglio utilizza gli scarti del proprio stesso corpo (urina, sangue mestruale…) con cui fissa istanti della vita del carcere, ritratti delle amiche e compagne di sventura, o ricorda le violenze perpetrate in passato nel carcere di Amed, nome curdo per Diyarkabir. E l’immondizia, le scorie, le deiezioni trovano una nuova dignità nella necessità che costringe all’utilizzo. Le categorie precedenti alla detenzione devono essere riviste. Lo stesso si può dire delle esperienze e delle conoscenze, che vengono passate in rassegna e condivise, rielaborate e trasformate in nuovi saperi grazie a un confronto veramente democratico, in cui ciascuna delle donne presenti nel braccio può dire la propria, indipendentemente dalla sua origine o dal contesto sociale di provenienza. Sono proprio queste discussioni, animate e spesso filosofiche, che mantengono acceso lo spirito.
Come mostrano le farfalle della leggenda, la verità del fuoco non si può conoscere se non buttandocisi dentro. Zehra e le altre, come tanti combattenti del popolo curdo o degli ideali della libertà, non si tirano indietro. La prigionia stessa denuncia la loro lotta, la loro resistenza. È d’altronde proprio nello slancio del pensiero, che si proietta oltre le mura del carcere, che sussiste per l’individuo la possibilità di mantenersi vivo, di non soccombere alla logica carceraria, di non interiorizzarla.
Penso che leggendo tutti i giorni quasi trecento pagine, discutendo e riflettendo, attestiamo in qualche modo la “vittoria delle volontà”. Penso che in galera si riveli una verità sulla vita, che ho il dovere di esprimere attraverso le mie azioni e l’esercizio del pensiero. Per un momento ho avuto paura che nell’oscurità assoluta creata dai muri attorno a me, strappata dalle mie radici, avrei finito per abituarmi a questa situazione, e avrei accettato la persecuzione inflittami. […] È più facile liberarsi della prigione nel suo aspetto concreto che distoglierne il proprio io. Per tutte le ventiquattro ore bisogna cimentarsi in questa lotta interiore. E questa lotta libera i pensieri. Si ingaggia un combattimento costante per la propria vita. E si impara a restare dritte, in piedi, a testa alta, davanti a questo potere annichilente. (p. 30-31)
Anche nella durezza della prigionia si possono aprire a tratti scorci di poesia, come il ricordo, bellissimo e suggestivo, della casa d’infanzia costruita intorno a due gelsi, di una piattaforma sui rami più alti che consentiva alla piccola Zehra di immaginare l’universo e entrare in sintonia con il cosmo. Viene spontaneo chiedersi se la profondità del suo riflettere presente non affondi le sue radici laggiù, in quei sogni di bambina, nella visione delle stelle che alimentava la sua curiosità e la sua sete di mondo.
Nell’epistolario edito da Fandango non possiamo mai leggere le risposte di Naz Öke, poiché la carta delle sue lettere è stata reimpiegata per realizzare le tavole straordinarie di Prigione n. 5 (già recensito qui nell’edizione italiana di Beccogiallo). Attraverso le parole di Zehra, però, riusciamo a comprendere come la detenuta abbia trovato in lei uno spirito profondamente affine, una controparte dialettica stimata di pari livello, sotto il profilo emotivo, culturale, intellettuale, ma anche qualcuno pronto a comprendere, ad accogliere tutte le domande. La certezza di questa accoglienza spinge Zehra a formularne sempre di nuove, a cercare un contrappunto al suo pensiero, a scavare nella sua ricerca di senso.
Uno dei suoi interrogativi ricorrenti riguarda il proprio percorso da artista, che prosegue all’interno della prigione e che lei sottopone continuamente all’approvazione dell’amica: “tento costantemente di avanzare in modo coerente nella mia espressione. […] Devo costruire un percorso solido, pur lavorando in tante direzioni diverse” (p. 126). L’arte è ciò che può salvare anche gli spiriti prigionieri, facendoli evadere; in nome dell’arte si può perdere la libertà del corpo, perché l’arte è quella che grida “il re è nudo”, che denuncia la verità; l’arte va oltre la lingua, ne inventa una nuova, getta ponti che oltrepassano i muri: “la realtà dell’arte è la realtà della vita” (p. 130), scrive Zehra commentando l’opera con cui Banksy, a New York, chiede la sua liberazione. Ecco perché risulta tanto più importante la denuncia di cui la donna si fa portavoce.

Nell’ottobre 2018 Zehra Doğan viene trasferita con altre compagne lontano dalla città natale, nel carcere di alta sicurezza di Tarso, che aumenta la sensazione di straniamento. L’artista però ha sempre una risorsa interiore nel talento, nell’impulso a esprimersi attraverso il disegno o la scrittura. Le sue lettere permettono quindi di condurre, trasversalmente all’esperienza carceraria, una riflessione persistente sul processo creativo, che diventa un modo per opporsi alla staticità imposta: “È un dinamismo che sicuramente reagisce all’immobilismo al quale ci obbligano qui. Si tratta di realizzare qualcosa, malgrado tutto, con l’immaginazione e i sogni” (p. 167). Anche perché i quadri e gli schizzi fatti evadere dal carcere e diffusi in Europa da amici fidati sono un modo per continuare a portare un messaggio intimamente sentito, il credo profondo in un mondo più equo, libero e giusto per cui vale la pena sopportare la prigionia: le opere, scrive Zehra, “sono un mezzo e non un fine! Esistono solo per trasmettere la mia lotta” (p. 178). Fino all’ultima lettera scritta dalla prigione, quindi, l’artista si sente depositaria di una missione, che è quella di testimone, di custode della memoria di tutte le donne, le prigioniere incontrate, che non dispongono degli stessi strumenti, o non hanno una voce altrettanto forte. Zehra sa, sente visceralmente, che la strada è ancora lunga (“A che serve essere libera, se non lo siamo tutte?”, p. 280), ma reagisce con l’energia vitale, creativa, che attraversa ogni pagina della raccolta.

Non si può leggere questo volume d’un fiato, come un romanzo. Bisogna assimilarlo un po’ alla volta, recepire le linee e le tematiche che lo attraversano e che ritornano in più punti, creando un disegno di fondo che emerge e progressivamente si fa più nitido. Bisogna parlarne con altri, trascriverne frasi, fare orecchie alle pagine. Bisogna che l’inno alla libertà e alla forza che ne deriva fuoriesca dai limiti fisici del libro stampato, come è uscito – vibrante, intatto – dalle mura delle prigioni di Tarso e di Diyarkabir.
Qui abbiamo capito che cosa significhi essere persone. Abbiamo imparato a condividere la vita con i nostri compagni di strada, gli uccelli, gli insetti, i topi, i gatti e le margherite. Chissà quante persone sono passate sotto questo cielo? Chissà quante persone hanno guardato il cielo dal mio punto di osservazione? Chissà quante persone hanno vissuto, come me, questo cielo così angusto come fosse infinito? (p. 147).
 
 Carolina Pernigo