Il naufragio di Šostakovič
di Giorgio Ferrari
di Giorgio Ferrari
Neri Pozza, ottobre 2022
pp. 208
€ 18,05 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Cosa si provava a vivere nella Russia degli anni del terrore staliniano?
Il naufragio di Šostakovič (Neri pozza editore) di Giorgio Ferrari, inviato speciale e corrispondente di guerra, scrittore e giornalista per l’Avvenire, vuole rispondere a questa domanda, attraverso un viaggio attraverso l’arte, la musica, la letteratura russa degli anni post rivoluzionari.
Emblematica è la scelta di Ferrari di aprire la narrazione non descrivendo le deportazioni, le sparizioni improvvise, le uccisioni, il sistematico annientamento dei propri oppositori da parte di Stalin, ma narrando un episodio apparentemente meno eclatante. Nel gennaio del 1936 un giovanissimo Šostakovič, uno dei più geniali compositori russi del Novecento, mise in scena l’opera Lady Macbeth del distretto di Mcensk.
Stalin assistette alla rappresentazione dal suo palco nel Bol'šoj, ma prima dell’inizio del quarto atto abbandonò il teatro. Qualcosa era andato storto, Iosif Stalin non aveva apprezzato l’originalità, lo sperimentalismo musicale dell’opera. La stampa all’unanimità, manovrata da Stalin, si scagliò contro Šostakovič, facendo letteralmente a pezzi la carriera dell’enfant prodige della musica russa. Da quel momento ebbe inizio per Šostakovič un inferno fatto di terrore che durerà fino al termine dei suoi giorni.
«Da quel momento Šostakovič attenderà ogni notte sulle porte di casa con la valigia in mano l’arrivo di una Zil nero per essere condotto alla Lubjanka e fucilato». (p.13)
La sua colpa? Aver deluso le aspettative di Stalin, aver creduto che la libertà artistica fosse un diritto e non un privilegio. Era soltanto il Potere che poteva decidere cosa era lecito e cosa non lo era, come bisognava pensare, quali idee fosse opportuno avere, quali opinioni era patriottico condividere e che tipo di musica si potesse scrivere. In poche righe Ferrari riesce a mostrare al lettore, a fargli vivere, a fargli sentire il terrore di quegli anni. Un lettore poco avvezzo alla storia della rivoluzione d’Ottobre s’immagina che furono i dissidenti politici, gli esponenti e gli eredi dell’antica classe nobiliare russa a patire il giogo dei rivoluzionari; non immagina che una semplice opera musicale, priva di legami con la politica, potesse mettere a repentaglio la vita di uno dei più talentuosi compositori russi di allora.
Questo episodio dà l’idea di cosa fosse il Potere: un’autorità che si era arrogata il diritto di legiferare su ogni più piccolo aspetto della vita umana, stritolando pensieri, sentimenti, idee nella sua ideologia. Scrittori, artisti, musicisti furono tutti vittime dalla censura.
Ferrari ci racconta le loro vite, ci descrive i conflitti, le illusioni e le disillusioni che furono costretti a patire. Un poeta che aveva esaltato la rivoluzione d’Ottobre, Aleksandr Blok, confesserà ai suoi amici, pochi anni prima della morte:
«Soffoco, soffoco, soffoco. Soffochiamo tutti. La rivoluzione mondiale si sta trasformando nell’’angina pectoris mondiale». (p.43)
Altri come lo scrittore teatrale Mejerchol’d, invitato a fare ammenda per i suoi “eccessi artistici” disapprovati dal Partito, non volle sottomettersi alla censura:
«Dove una volta c’erano i migliori teatri del mondo, ora tutto è squallidamente regolato, aritmeticamente medio, sbalorditivamente mortale per la mancanza di talento. Voi avete fatto qualcosa di mostruoso! Avete eliminato l’arte!» ( p.88)
Cinque giorni dopo aver pronunciato queste parole, venne arrestato, interrogato e costretto a dichiararsi, sotto tortura, nemico del popolo. Condannato a morte, venne fucilato. A Bulgakov, tollerato dal sistema perché godeva del favore di Stalin, il sistema tarpò sistematicamente le ali; il Dottor Zivago di Pasternak, oggi annoverato tra i grandi classici della letteratura mondiale, non poté essere pubblicato in patria perché descriveva in modo fin troppo realistico la brutalità della collettivizzazione forzata e delle purghe staliniane, mentre a Grossman, il Tolstoj del Novecento, venne sequestrato Vita e destino e da quel giorno gli fu proibito di pubblicare qualsiasi altro suo scritto.
Alcuni furono fucilati come nemici della patria, altri, che erano stati all’inizio dei grandi sostenitori degli ideali rivoluzionari, divennero come Šostakovič “pupazzi, burattini del Potere”. Questi uomini, che Stalin definiva i suoi ingegneri dell’anima, ebbero dal primo all’ultimo, indipendentemente dalle loro idee, un tragico epilogo.
Ferrari, ripercorrendo la storia della censura nell’Unione sovietica, s’interroga e cerca di definire il ruolo e il valore dell’arte. Ciò che muove la narrazione di Ferrari è la domanda: a cosa servono la musica, la letteratura, la poesia? Che rapporto hanno o dovrebbero avere con il potere? Quale dovrebbe essere il ruolo dell’artista?
Lenin e Stalin vollero servirsi dell’arte per educare le masse, ne fecero uno strumento di propaganda, di asservimento ideologico. Fu questa l’esigenza che spinse il potere a censurare l’arte, sottoponendola all’esame preventivo di funzionari che avevano lo scopo di assicurarsi che gli intellettuali non esprimessero nulla di scomodo per il Potere. Ma, sostiene Ferrari, citando Evgenij Zamjatin, antesignano di Orwell e di Huxley:
«Una vera letteratura ci può essere soltanto laddove la fanno non dei funzionari diligenti e benpensanti, ma dei folli, degli asceti, dei ribelli, degli scettici. E se lo scrittore deve essere assennato, se deve essere cattolicamente ortodosso, se deve essere utile, se non può fustigare tutti come Swift, se non può sorridere di tutto, allora non è letteratura ma c’è soltanto una letteratura giornalistica, cartacea che oggi si legge e domani servirà per avvolgere il sapone del bucato». (p.27)
Ancora oggi, afferma Ferrari, l’arte è invisa al potere, è temuta e guardata con sospetto, perché non si presta facilmente a essere asservita a un’ideologia, a un fine politico; quando invece ciò accade, l’arte cessa di essere arte.
«Il progresso e la modernità non hanno scalfito la diffidenza dei potenti nei confronti delle arti: l’ayatollah Khomeini si affrettò a bandire la musica occidentale in quanto opera del diavolo, condannando al rogo i versi satanici di Salman Rushdie e invitando i fedeli a giustiziare il loro autore. (…) E che dire della rivoluzione francese? Della cancel culture?» (p. 29)
Ferrari scrive con uno stile chiaro, semplice, immediato e la narrazione scorre rapida e incalzante come se fosse un romanzo. È un saggio che consiglio a tutti: agli appassionanti di storia e non, a chi ama la letteratura russa e a chi si accosta per la prima volta all’argomento. È una lettura che ha il potere di suscitare tante profonde riflessioni e che nelle sue interrogazioni è profondamente attuale.
Guendalina Middei
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