di Christina Baker Kline
HarperCollins, novembre 2022
Traduzione di Roberta Zuppet
pp. 382€ 19 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
«Molto perdemmo, ma molto ci resta». (p. 119)
Nell’Inghilterra vittoriana, tre donne provano a ricostruire
la propria vita, rimettendo in ordine i pezzi di un puzzle che nel loro paese
d’origine erano andati persi. È questa la premessa del romanzo Le esiliate di Christina Baker Kline:
non è solo una storia di una donna, bensì di tre diverse esistenze che, per
caso – o forse no-, saranno destinate a incrociarsi.
La prima donna che conosciamo è Evangeline, una ragazza
ingenua, che lavora come istitutrice presso una nobile famiglia londinese.
Qui, cede alle lusinghe del rampollo di casa, rimanendo incinta. La gravidanza
scatenerà nella famiglia una rabbia vergognosa, tanto da indurre a cercare un
modo per allontanare la sprovveduta ragazza dalla casa. Così i suoi datori di lavoro la accuseranno
ingiustamente di furto: lei, arrestata, senza possibilità di appello e difesa, è
condotta in prigione.
La propria debolezza e credulità. Quanto era stata patetica e sciocca. Come aveva potuto accettare di farsi compromettere fino a quel punto? Il suo buon nome era l’unica che aveva. Adesso non le restava più nulla. (p. 28)
Ed è forse da qui che il racconto prende davvero inizio: la prigione rispecchia una società bigotta che sfrutta l’arresto per interessi o vendette personali, come nel caso di Evangeline. La ragazza si ritrova insieme con altre sfortunate, rinchiuse lì solo per meri capricci della nobiltà inglese; per loro non c’è possibilità né di uscita né tantomeno di redenzione, nel caso di reati reali e comprovati. Non sarà, infatti, molto lunga la permanenza di Evengeline nella cella londinese. La sua destinazione sarà ben altra; infatti, per le ragazze considerate imbarazzanti per la società, la pena va scontata nel nuovo possedimento inglese: l’Australia. E non è un caso che la nave, in cui è imbarcata Evangeline con le altre, si chiami Medea, come il noto personaggio mitico.
In un contesto storico in cui l’impero inglese sfruttava le
colonie, l’isola, immersa nell’Oceano Pacifico, divenne un girone infernale in
cui uomini e donne erano mandati a scontare la propria pena. La traversata in
mare fu per tutte una prova di sopravvivenza: le avances volgari e triviali dei membri dell’equipaggio erano
all’ordine del giorno. Se da una parte quindi gli orrori accadevano
frequentemente, dall’altra non mancherà nemmeno la solidarietà femminile: una
rete quasi nascosta che però permetteva alle detenute di sopravvivere. Ed è
così che l’istitutrice conoscerà la seconda protagonista di questa storia:
Hazel, condannata per aver rubato un cucchiaio d’argento.
Parallelamente a questa storia, una bambina indigena, Mathinna, cresciuta con il patrigno, è strappata dal suo ambiente per entrare
nella casa del governatore - la famiglia Franklin - per un esperimento sociale:
la moglie, infatti, intendeva studiare in quanto tempo una “selvaggia” sarebbe riuscita a diventare una nobildonna. È con questo intento che Mathinna è portata
via dalla sua tribù per entrar a far parte di un’altra realtà, dove ha inizio,
secondo i Franklin, il processo di civilizzazione: i vestiti lussuosi, lo studio
e il ballo diventeranno le principali occupazioni di questa bambina, che, però, non
si dimenticherà mai delle proprie origini.
Perché non avrebbe dovuto crederci? Eccola là, strappata dalla sua famiglia e da tutti quelli che conosceva per il capriccio di una signora con le scarpe di raso che faceva bollire i teschi degli indigeni e li esponeva come curiosità […]. (p. 92)
Le esiliate è la
storia di tre donne che cercarono con ogni mezzo di fronteggiare gli ostacoli
che una società bigotta e moralista impose nelle loro vite, ma tutto fu vano. L'autrice ci mostra anche come non
tanto tempo fa alle donne che non si adattavano ai misogini schemi sociali, era
previsto un preciso trattamento: dovevano essere allontanate dalla società,
quella considerata civile ed evoluta, per essere spedite in una terra che
all’epoca era solo per i galeotti o galeotte.
Il succo del sermone era sempre lo stesso: erano miserabili peccatrici che stavano subendo una penitenza terrena; il diavolo stava aspettando di vedere quanto in basso potessero cadere prima di diventare irredimibili. La loro unica possibilità era affidarsi alla severa misericordia di Dio Padre e pagare il prezzo della loro malvagità. (p. 69)
Se nel romanzo non mancano maltrattamenti, abusi e sofferenze, a questi si alternano anche episodi di rinascita, speranza e coraggio, che
trovano nei dettagli storici la loro concretizzazione. L’autrice scava dentro le
dinamiche sociali dell’epoca, permettendo così al lettore di farsi un’idea di
quella che era, almeno in parte, l’Inghilterra vittoriana. E lo fa attraverso
tre punti di vista diversi: Evangeline, l’ingenua ragazza sedotta, Hazel, la
sedicenne costretta a rubare per sfamarsi e Mathinna, la bambina indigena che
perderà prima la sua tribù e poi se stessa in modo irrimediabile.
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