"All'ombra di Bach": Emiliano Vitali ci porta tra le pieghe della vita del Maestro


All'ombra di Bach. La giovane estranea
di Emiliano Vitali
Gesualdo Edizioni, 2022

pp. 552
€ 20,00 (cartaceo)


L'amore per Johann Sebastian Bach è spesso dirompente e quasi assolutista; quando prende posto nel cuore di una persona, sa plasmare i suoi interessi, la sua attenzione e forgiare anche la forma dei pensieri e delle voci. Il libro di Emiliano Vitali è di certo testimonianza di questa passione, coniugata ad una conoscenza esaustiva e filologica dell'universo bachiano.
Proprio fra le pieghe di questo universo - e della sua non convenzionale famiglia - ci porta il romanzo All'ombra di Bach, che sceglie fin dalla struttura di omaggiare il Maestro di Lipsia.
Il romanzo, infatti, è pensato come una serie di Invenzioni a quattro voci e un continuo, che richiama la tecnica compositiva bachiana. Tra questi capitoli/voci si inserisce una lunghissima memoria di Fraülein Friedelena Bach, che risulta un vero e proprio controcanto all'io narrante principale che è Herr Altnikol.
Proprio quest'ultimo ci introduce a casa Bach, in una oscura notte del 1744: 
Mi presento come il nuovo precettore.
Nessuna risposta. 
È qui che abita Herr Bach, il Cantor? (p.9)

Comincia così la vita di Johann Christoph Altnikol come precettore dei figli di Bach. Altnikol, personaggio realmente esistito, fu copista delle opere del maestro (tra l'altro del secondo libro de Il clavicembalo ben temperato e della Passione secondo Matteo), organista, compositore e sposò una figlia di Bach, Elisabeth Juliana Friderica. 

Proprio a questo amore è dedicata una parte significativa del romanzo. Così ci viene narrato il loro primo incontro:

La vedo, incorniciata nello stretto spiraglio dei battenti. Seduta di spalle a me, curva sui rumorosi tasti del suo obbediente strumento. Giovanissima: sono il fresco disegno del suo corpo e il candore delle braccia a lasciarlo indovinare. È scalza, coperta solo da una semplice vestaglia chiara e uno scialle poggiato con noncuranza sulla schiene; una falba treccia, come disfatta da un sonno agitato, le pende su un lato, accesa dal fascio di luce radente che inonda il salottino. (pp. 14-15)

Le pagine della Vox Prima, al pari del celeberrimo ritratto di Elias Gottlob Haussmann, ci rendono visibili i lineamenti di Bach, percepibile la sua voce e sentiamo quasi i grevi odori della cucina. Soprattutto si assaporano i rituali di famiglia: innanzitutto la sala delle prove, ingombra di cembali e clavicordi, leggii e fogli di musica. I coristi, gli studenti, i figli si lasciano guidare dal burbero Maestro dalla corta parrucca avorio, grassa di cipria. Poi i pranzi e le uscite per le messe e per gli inviti alle feste. Vi sono risposte che ci danno icasticamente la cifra del pensiero bachiano, ad esempio quando la piccola Caroline chiede ad Altnikol, venuto a Lipsia per studiare teologia, cosa è la teologia, risponde il padre per lei: «Significa starsene inchinati su libri il più possibile massicci e polverosi, pretendendo di avvicinarsi al Signore» (p. 19) e non è difficile prender per vero questo velenoso sarcasmo da parte di chi per avvicinarsi al Signore ha usato la lingua della musica.

La parte più strabiliante del libro di Vitali è proprio l'immersione totale dell'Autore nello spirito della storia. Scrive come un precettore del Settecento, pensa come un uomo innamorato del Settecento, ad ogni pagina si palesa la sua conoscenza capillare della storia della famiglia Bach e di tutto quello che attorno ad essa ruotava. Ma qui, appunto, si celano anche le insidie che chiunque scriva un romanzo storico incontra. Innanzitutto di natura stilistica. Quando Umberto Eco scrisse Il nome della rosa cercò una voce narrante che era verosimilmente compatibile con quella di un monaco medievale che, peraltro narrava i ricordi di quando era novizio. Vi sono i termini, vi è la mentalità, ma il professore era ben consapevole che l'applicazione pedissequa della filologia ai romanzi può risulta anche una zavorra, poiché ogni romanzo storico trova il proprio spazio linguistico proprio nell'incontro ermeneutico fra il tempo narrato e quello in cui vive l'autore.

Nel libro di Vitali si comincia con questo compromesso - che è in realtà la duttilità del principio formativo di un'opera d'arte - per poi cedere sempre più, a mio avviso, a uno stile e ad un lessico che appesantiscono la narrazione, come un vetro troppo spesso che non lascia intravedere quanto accade oltre la finestra. È un crescendo che dalla Vox Prima ci porta alle memorie di Fraülein Friedelena Bach, la quale così ci narra il suo primo atteso incontro d'amore:

Ma serberò inviolato il verecondo suo candore: non concederolle di varcare meco la soglia della mia camera d'isposa, né di seguitarmi all'alcova ov'i più dolci secreti dell'amore mi furon per la tutta prima volta risvelati. Doverà essa asciugarsi paziente di dietro l'uscio sbarrato, attendendo in silenzio, intantoché l'innocenza degnamente s'immola sovr'ilmolle altare della voluttà. (pp. 379-380)

Se ci armiamo di pazienza e di vocabolario per affrontare la lettura dell'italiano di Giordano Bruno o Giambattista Marino, risulta difficile da comprendere, talvolta, perché dobbiamo farlo per leggere un nostro contemporaneo e questo non vuole essere un invito alla prosa sciatta e all'italiano standard del web o dei giornali, ma una riflessione (che già di per questo merita un plauso) sull'utilizzo letterario della nostra lingua. Ho trovato sovraccariche e barocche (non nel senso bachiano, ma proprio nel senso di Giambattista Marino) tantissime metafore presenti nel romanzo di Vitali: «un cielo in lutto piange lacrime di luce» (p. 49), «Lagrime non più trattenute mi leccavano le gote, cocenti; poi però mano a mano ch'il sordido disegno di quel bruto si andava palesandomi in tutta la sua nera nequizia, le sentii gelarmi il viso come scaglie di vetro» . (p.396) Lacrime che leccano, che infuocano, che gelano in un solo periodo è forse un poco troppo anche per chi, come me, è ammaliata dalla barocchissima e sicilianissima prosa di un Bufalino o di un Consolo. 

Tuttavia, ripeto, è un pregio che un romanzo ci porti a riflettere sullo stile e sulla necessità, per esprimere lo spirito e la psicologia di un'epoca a noi così distante, di inventare una prosa nuova. Io ho trovato molto efficace la prosa di Vitali proprio quando va per sommari e acquista velocità: 

Mi vesto in fretta.

Il mattino è ancora acerbo tra le feritoie delle mansarde, ma la casa brulica di vita: voci forestiere che salgono dal piano di sotto, esultanti, confuse. 

Un odore bruciaticcio di pane fresco, appena strinato.

 Abbandonati nell'angolo della scala, bauli, mantelli, borse da viaggio.

Sono arrivati. (p. 92)

In questa e in altre pagine vi sono aggettivi o participi passati  desueti, che però trovano nuova linfa vitale dalla punteggiatura fitta e dai periodi brevi. In questi momenti la struttura non occulta ma rende visibile i tormenti dei protagonisti:

Ho bruciato il violino.

È finito tutto. Niente più musica: voglio chiudere la mia spinetta per sempre. Neppure il suo più acido accordo traduce il mio dolore: ho ascoltato ciascuno dei suoi fitti tasti; non una nota come i gemiti del mio cuore di cenere. (p. 190)

Vi sono molte pagine in cui il significato e il significante coincidono felicemente e ci fanno rincorrere senza inciampi l'intreccio parallelo delle storie d'amore di Altnikol con Liebschen, di  Friedelena Bach con Walther e dell'enigmatica giovane estranea.

Un libro che è una prova narrativa coraggiosa, in cui forse lo studioso spesso prende il sopravvento sullo scrittore, ma che restituisce il fascino senza tempo del mistero dell'amore e dell'arte.


Deborah Donato