di Jonathan Coe
Feltrinelli, novembre 2022
Traduzione di Mariagiulia Castagnone
pp. 432
€ 22 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)
C’è un fil rouge che attraversa la produzione letteraria di Jonathan Coe, amatissimo autore inglese classe ’61, ed è la memoria: il desiderio, la necessità dei personaggi – e per certi versi dell’autore – di tornare al passato, proprio e del Paese, e raccontare. Per trovare dove affondano le proprie radici e forse comprendere qualcosa del presente e di loro stessi, per osservare la strada percorsa, per restituire agli altri che sono venuti dopo le ragioni di una vita. E, soprattutto, per tentare di ingannare il tempo, fermarlo anche solo per un attimo nel suo inesorabile scorrere.
Anche i personaggi talvolta ritornano, prendendosi uno spazio e un ruolo diversi in romanzi che sono sempre autoconclusivi ma anche parte di un discorso letterario più ampio, similmente a quanto fa Elizabeth Strout per esempio che dai margini di una storia promuove al ruolo di protagonista in quello successivo, componendo un mosaico molto ricco di rimandi.
La storia intima, umana, dei personaggi che Coe costruisce, si intreccia a quella di un Paese, il Regno Unito, protagonista al pari degli uomini e delle donne che si muovono in scena, dei grandi eventi che l’hanno attraversato ma anche di storie e accadimenti meno noti, dei cambiamenti, delle contraddizioni, delle molte identità che lo compongono.
Bournville, l’ultimo romanzo scritto e da poco in libreria per Feltrinelli nella traduzione di Mariagiulia Castagnone, si inserisce perfettamente in questo discorso: all’ombra della fabbrica di cioccolato Cadbury nella cittadina di Bournville, sobborgo di Birmingham, si snodano quasi ottant’anni di storia di una famiglia e, con lei, del Paese, dalle celebrazioni per la fine della guerra ai primi mesi della pandemia mondiale. Parte del progetto che Coe riunisce sotto il titolo di Unrest, Bournville si lega soprattutto a Expo 58 (qui la recensione di Gloria e qui l'incontro con l'autore), La pioggia prima che cada e Io e Mr Wilder, ma è un romanzo in sé compiuto e godibilissimo anche letto ignorando tali legami.
Il cuore della vicenda, da cui si diramano tutte le altre storie, è Mary, che incontriamo bambina durante i festeggiamenti per la fine del conflitto e che seguiamo nel suo diventare ragazza e poi donna, le scelte prese, la costruzione di una famiglia, il quadro sempre più affollato di personaggi, storie, identità diverse. I suoi figli, i nipoti, il marito, i genitori e i suoceri, i compagni e le compagne dei figli, sono tutti parte di una famiglia e una narrazione che si fonda sulla molteplicità di sguardi, simbolo delle anime diverse di un Paese e dei cambiamenti che lo attraversano. Una saga famigliare, quindi, che si snoda dal 1945 al 2020, da cui emergono una moltitudine di tematiche e spunti, da ovunque si osservi questa storia: le vicende private aprono alla riflessione sul rapporto genitori figli, sul matrimonio e le scelte che facciamo, i segreti e un certo grado di inconoscibilità, i sogni e la realtà che devono abitare, le crisi, le divergenze; le vicende storiche cadenzate in sette tappe, il discorso di Churchill per la vittoria, l’incoronazione della giovane regina Elisabetta, la vittoria dell’Inghilterra ai mondiali del 1966 contro la Germania, la discussa incoronazione di Carlo principe del Galles, il matrimonio tra l’erede al trono a Diana, i funerali della principessa e, infine a chiudere il cerchio, il discorso della regina per i settant’anni di regno, nel pieno della pandemia. Vicende storiche di natura e impatto diversi, ma attraverso cui osservare i mutamenti di un Paese, le sue contraddizioni, le scelte, l’influenza sulle vite delle persone.
Coe racconta i suoi personaggi – di cui uno, quello di Mary, è in parte ispirato alla propria madre, perduta proprio durante il periodo durissimo del lockdown – e il proprio Paese in una narrazione priva di retorica, che va dall’orgoglio per i meriti sportivi alla vergogna per le tensioni tra cittadini inglesi e anglo-tedeschi all’indomani della fine della guerra, fino all’incredulità per l’ascesa politica di un certo Boris e le sue scelte sempre più incaute, la Brexit e la leggerezza con cui il Governo ha operato all’inizio della pandemia. Molteplici personaggi, sguardi, eventi storici e temi che Coe, narratore esperto, riesce a tenere insieme senza mai farsi sopraffare – e noi con lui – mantenendo ben salde le redini di una storia che ha in Mary il suo centro, per poi lasciare al lettore la scelta di quali chiavi di lettura adoperare per entrarvi, in quali stanze accendere la luce.
Ci sono le pagine dolorose dell’inizio della pandemia, prologo e poi chiusura della storia, lo spaesamento che tutti in quei primi giorni abbiamo provato, la paura che piano piano si insinuava nelle nostre giornate.
Settimane dopo, Lorna ricordava ancora l’atmosfera che si respirava quel giorno nel ristorante, e in generale nella città, un’atmosfera strana, inquieta, carica di tensione, come se le persone stessero cominciando a percepire che qualche cambiamento, qualche evento imminente e invisibile stava per sconvolgere la loro quotidianità in modi ancora oscuri a cui non erano preparati. Una sensazione di vaga apprensione difficile da definire, ma palpabile. (p. 16)
La rabbia, per una gestione superficiale della situazione, la scoperta dopo delle regole violate proprio da chi le aveva imposte; la solitudine e la distanza dalla madre anziana, che ricalca la vicenda personale dell’autore. Qui però, sottolinea Coe nell’interessante postfazione, finiscono le similitudini, se il personaggio di Mary è ispirato alla propria madre il resto della famiglia e le vicende narrate sono invenzione letteraria. Ma non per questo meno reali, meno concrete.
[…] credo che quando si arriva alla mezza età, come è il nostro caso, si inizia a interessarsi al mistero del proprio io, e la chiave di questo mistero è il rapporto tra noi e i nostri genitori. (p. 187)
È questo rapporto, i misteri che contiene, il centro nevralgico della narrazione. Ed è soprattutto Martin, il figlio minore, talentuoso violinista che ha ereditato dalla madre la passione per la musica, a interrogarsi sul legame con lei, scoprendo nel tempo quanto parziale sia stato in fondo il ritratto che della madre ne avevano tutti loro. I propri segreti, un certo grado di inconoscibilità e, soprattutto, ciò che i nostri genitori erano prima di assumere quel ruolo, le differenze di carattere e opinioni, lasciano zone inconoscibili, pezzi di vita di cui non siamo stati testimoni e che non possiamo davvero comprendere. I legami che si creano, il loro mutare nel tempo, le scelte, le opinioni figlie del proprio retaggio culturale.
A volte aveva l’impressione che loro due si intendessero alla perfezione; altre volte – come in quel momento – la sentiva lontanissima. A livello razionale, in superficie, si rendeva conto che crescendo si era allontanato da lei, e che ormai non avevano quasi niente in comune. Eppure, c’erano ancora dei momenti di intesa che contraddicevano quella sensazione. (p. 247)
C’è un passaggio, intorno alla metà del libro, che emoziona e ben condensa a mio avviso quanto si diceva a proposito della riflessione sulla memoria e sul desiderio di fermare il tempo:
Nelle strazianti dissonanze del primo movimento, nella melodia cristallina e vulnerabile del secondo, nella voce del soprano, aveva colto l’espressione di dolore che lui o chiunque altro avrebbe potuto sperimentare per una perdita – la perdita dell’innocenza, la perdita dell’infanzia, della speranza, un’occasione mancata – , fino al punto in cui il crescendo musicale diventava un urlo di dolore per il fatto più semplice e crudele di tutti: il passare del tempo. (p. 248)
Lo rileggo più volte e mi commuove profondamente. Per le persone amate e perdute, ma anche per l’ineluttabile scorrere di questa cosa preziosa che è il tempo che ci è concesso e che troppo spesso va sprecato. L’accostamento alla musica rende perfettamente l’idea del dolore sordo di fronte al «fatto più semplice e crudele» che non possiamo in alcun modo contrastare. Forse possiamo solo viverlo, il più possibile.
Ma il romanzo di Coe non usa la filosofia spicciola per consolarci o metterci in guardia, semplicemente e in modo efficace porta in superficie le complessità, le contraddizioni, dell’essere umano, la superficialità con cui a volte ci muoviamo nel mondo, la goffaggine con cui affrontiamo il cambiamento, le differenze che talvolta intercorrono tra noi e le persone che amiamo.
E qui, in certe differenze, il sentimento che ci lega diventa più complesso da vivere e interpretare.Pensieri forse figli di un’epoca, ma che feriscono lo stesso. Interessante che sia proprio a un personaggio “estraneo” che Coe affidi le parole più dirette di fronte alla discriminazione e alla complicità della famiglia:
Ci siamo frequentati per trentadue anni. Trentadue anni. […] E per tutto quel tempo voi altri… sì, certo, siete sempre stati carini, buoni, cordiali, ma sapevate. Avveniva tutto sotto i vostri occhi e voi non avete mai alzato un dito. Non avete mai fatto niente, cazzo. Avete serrato i ranghi. Non gli avete mai detto una parola e lo sapete cosa significa? Significa che stavate dalla sua parte. (p. 413)
Uomini e donne imperfetti, fatti di carne e sangue. Intorno a loro un mondo e una società che cambiano e che non tutti sono capaci di comprendere. C’è la multiculturalità e la discriminazione, nuove forme di diffidenza o di odio si sono sostituite a quelle precedenti; c’è la gentrificazione e il sentimento europeista che implode con le scelte più recenti ma da sempre motivo di contrasto tra due fazioni tanto diverse; c’è l’orgoglio nazionale e la capacità di vedere anche gli aspetti meno edificanti del Paese e dei suoi cittadini, dei propri famigliari stessi. E c’è, infine, il coraggio di chi non accetta di restare neutrale, anche se questo significa ferire le persone che amiamo:
Non penso che si possa rimanere sempre neutrali, tutto qui. Ci sono momenti in cui ciascuno di noi deve schierarsi. (p. 415)
Da qualsiasi punto si scelga di osservare questa storia, qualsiasi chiave di lettura utilizziamo per entrarvi e nonostante qualche trascurabile difetto e debolezza della narrazione, Bournville è una moltitudine assai affascinante, ricca senza farsi strabordante. E molte cose sono rimaste girata l’ultima pagina. Lì, a sedimentare, per farsi strada tra i pensieri e il sentire.
Di Debora Lambruschini
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