in

L'orgoglio di essere proustiani. In "Proust senza tempo", Piperno ci spiega perché non riusciamo a smettere d'amare Marcel.

- -

 



Proust senza tempo
di Alessandro Piperno
Mondadori, 2022

pp. 156
€ 19,00 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)

Vedi il libro su Amazon

Perché se si viene "punti" dal soave morso della prosa proustiana, gli effetti di questo morbo non ci abbandonano per tutta la vita? Il libro di Alessandro Piperno vuole essere una risposta a questa domanda che, per quanto possa apparire scanzonata e provocatoria, è invece assolutamente seria (e ancor più seria e accorata sarà la risposta).

È di lui che vorrei parlarvi. Della sua centralità nella vita di tanta gente come me, di come ha contribuito a cambiarcela, ma anche di come è riuscito ad avvelenarla ben benino e per sempre. Perché, occorre esserne consapevoli, quando ti entra dentro non ti lascia più in pace. (pp. 11-12)

Per rispondere a questa domanda, ogni lettore non può che partire da se stesso. Proprio questa è la via scelta da Alessandro Piperno che, nonostante l'attrezzatura critica e filologica certamente non gli faccia difetto, sceglie di introdurci nel caleidoscopico universo di Marcel Proust partendo dalla propria biografia, ossia dal suo personale incontro con lo scrittore. Ultimo anno di liceo, un amico di Piperno gli regalò per Natale un librone blu: il primo volume di Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust tradotto da Giovanni Raboni per i Meridiani Mondadori.  L'amico che di nome faceva Roberto, condividendo così il nome di Saint-Loup, oltre che il garbo e la buona educazione. Piperno si scherma, dicendo che questo libro serve forse più a chi lo scrive che a chi lo sta leggendo, invece credo che ogni proustiano D.O.C. sia tornato cento volte, nelle proprie memorie, a ricordare l'attimo in cui ha aperto "il libro", le prime strampalate impressioni che ha ricevuto per la pervasività del linguaggio di quell'Io indolente e insonne, che piegava alla sua pigra inerzia anche la nostra smania di lettori. Il momento in cui si entra nella celeberrima cattedrale proustiana è un momento di iniziazione, che non si dimentica. Questo rende il saggio di Piperno immediatamente diverso dai tanti che in questo centenario della morte di Marcel Proust stanno vedendo luce: il saggio di Piperno parte dal momento fragile e immenso in cui noi abbiamo scelto il "nostro" scrittore o, forse, lui ha scelto noi. È un saggio molto più libero di altri, anche nel violare una regola - che naturalmente ben conosce - imposta da Proust: non confondere il Marcel della sua opera con Marcel Proust. Tuttavia questa sovrapposizione è una tentazione irresistibile e Piperno, pur deplorando la morbosità di catalogare i vizi e le virtù private di Marcel Proust, dichiara scriteriato «l'atteggiamento di chi, per snobismo o partito preso (è il caso di Nabokov o Barthes), ostenta per la vita di Marcel una schizzinosa indifferenza» (p. 24). È quindi con gioia e grande guadagno ermeneutico che ci dobbiamo immergere nel "mito Proust", ossia in quell'immagine che lui per primo si preoccupò di diffondere: quella dell'adulto recluso, ipocondriaco e snob, segregato nella propria stanza, coricato con i manoscritti in mano, insonne e accudito da una fida governante. Piperno si chiede se davvero questo incantesimo, questa malia del Proust nottambulo, che rinunziò alla vita mondana per donare all'umanità il proprio capolavoro, non possa servirci per entrare nel testo. Perché sbarazzarcene? Si domanda infine. 

Chiamatemi ingenuo, accusatemi pure di melensaggine, ma scordatevi che alla mia età mi privi del piacere romantico di sovrapporre il destino di Proust a quello del suo alter ego. Sordo come sono a qualsiasi confessione religiosa, ho bisogno di credere che la vita si specchi benignamente nell'arte. E ne ho bisogno soprattutto quando mi sento di pessimo umore. (p. 32).

Il saggio di Piperno è un invito alla libertà. La libertà di essere lettori ed interpreti; ciò risulta sorprendentemente felice perché vi è l'utilizzo della storia degli effetti della critica proustiana, il dialogo - nella seconda parte del saggio - fra Proust e gli scrittori che lo hanno preceduto e fra gli scrittori del Novecento e Proust, eppure nessun apparato critico o regola ermeneutica può far vacillare il cuore pulsante di questo libro: l'orgoglio di essere proustiani. 

La verità è che sono un proustiano, e lo sono dalla testa ai piedi. In quanto tale, seguace di una vera e propria consorteria che annovera tra i suoi adepti individui tra i più disparati, e non tutti raccomandabili. (p. 45)

Chi come me aderisce umilmente ma convintamente a questa consorteria non ha potuto fare a meno di sorridere sotto i baffi (proustiani) che non ha, leggendo l'identikit del proustiano che Piperno traccia: 

Nell'eterodossa famiglia di lettori (categoria umana non sempre simpaticissima), i proustiani si distinguono per una singolare inclinazione allo snobismo e all'idolatria. Se da un lato sono soliti guardare dall'alto in basso chiunque non abbia finito la Recherche, dall'altro considerano un dovere patriottico visitare almeno una volta nella vita i luoghi  proustiani (case di campagna, alberghi di mare, cattedrali), con lo spirito del pellegrino che si reca in Terra Santa. (p. 46).

Dopo averci divertito e averci preso a braccetto, per svelarci gioie e confidenze della sua lunga frequentazione con Marcel, Alessandro Piperno entra nel cuore delle tematiche proustiane: i personaggi l'ebraismo, la moralità, la morte, il ruolo della letteratura.

Riflettendo su questi temi, Piperno non si limita ad analizzare l'opera è l'epoca di Proust ma attraverso questa a interrogare la nostra, in cui vige spesso un trionfo di anime belle, pronto a puntare il dito contro uno scrittore in morale a provare imbarazzo per scelte che insultano la sensibilità di parecchie persone. Questa maniera asettica educata di accostarsi a un'opera « ha contribuito a immeschinire in modo irreversibile gli studi umanistici, relegandoli a succursale dell'impegno civile». 

La seconda parte del testo accosta la figura di Proust a sette scrittori: Montaigne, Céline, Nabokov, Balzac, Dante, Woolf, Roth. Ho amato particolarmente  i capitoli su Céline e su Virginia Woolf.  Il primo perché in effetti come diceva Lévi-Strauss parla di una coppia male assortita (Proust e Céline) che è una fonte di “inesauribile felicità del lettore”.  Celine è l'anti- Proust per antonomasia e «odia Proust come solo lui sa odiare, con invidia e risentimento».  Attacca Proust proprio all'inizio del Voyage perché  è il prototipo umano di tutto ciò che Céline disprezza: il rappresentante della decadenza francese. Ma l'attacco di Celine a Proust è sul campo di battaglia dello stile. In questo scontro, tra la prosa fluida ed eterea, melliflua a volte, ma sempre ipnotizzante di Proust e quella sincopata, rude, eversiva di Céline, il lettore si trova ad assistere ad uno scontro fra giganti: sono, e condivido l’opinione di Piperno, i due massimi narratori francesi del ventesimo secolo. Il confronto di Virginia Woolf con Proust, invece, fu improntato ad una insana (a volte) venerazione. Insana perché Virginia si sentiva sconfitta dalla tenacia e dall’estrema sensibilità di Proust nel descrivere anche i più infinitesimali particolari. Per entrambi, l’unica vita degna di essere vissuta è quella trasfigurata nella letteratura. Anche da questo confronto, impariamo tanto da su entrambi, stavolta più che sullo stile sulle loro irrisolte velleità, che sono state ricca humus per le loro pagine. E poi vi  Balzac. Proust non poté fare a meno di fare i conti con l’autore della Commedia umana, e non lo fece con lo snobismo di tanti letterati suoi contemporanei. Capì cosa Balzac poteva insegnargli e probabilmente il barone di Charlus sarebbe stato differente senza la scostumatezza che Proust imparò da Balzac.

Alessandro Piperno coniuga felicemente la sua prosa da scrittore con il suo acume da critico e ne viene fuori una soave lettura di Proust, guidata da un amore verso lo scrittore che sgorga ad ogni capoverso, ad ogni periodo e che tuttavia non ne offusca mai la nitidezza critica, il rigore dello studioso, ma lo arricchisce con un travolgente entusiasmo che coinvolge il lettore. Un libro che è una passeggiata nei boschi narrativi proustiani, senza mai appesantire la magia di Proust con una esegesi estenuante.

Deborah Donato