Spingendo la notte
più in là
di Mario Calabresi
Mondadori, 2017
pp. 125
€ 11,00 (cartaceo)
€ 6,99 (ebook)
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Quello che colpisce subito, affrontando lo
scritto di Mario Calabresi, è il nitore
assoluto della prosa, il rigore
del procedere argomentativo, l’equilibrio
del suo tentativo di ricostruire le vicende degli anni di Piombo, in generale e
nel tragico effetto che hanno avuto sulla sua stessa famiglia. L’assassinio a
sangue freddo del padre, il commissario Luigi Calabresi, sospettato e accusato
ingiustamente di aver causato la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, non è
solo infatti un punto di non ritorno
per la storia dei suoi cari, ma anche un evidente quanto inquietante segnale
dei tempi, di quei tempi. Per
comprenderlo appieno, non è sufficiente conoscere i fatti, che l’autore
ricostruisce progressivamente, muovendosi con sicurezza nel tempo e nello spazio,
ma bisogna indagare il sentire complesso
di un’epoca, la rabbia serpeggiante e spesso contraddittoria, il meccanismo di costruzione e condizionamento
di precisi immaginari, veicolati da diverse forze politiche e quindi
opposti. La giustizia si trova nel mezzo
ed è costretta a procedere a rilento, spesso a tornare sui suoi passi, mai
veramente in grado di convincere del tutto l’opinione pubblica. Solo a
posteriori, in virtù di un buon senso che non sempre è però comune, veramente
radicato nella società, si può arrivare a una pacificazione tra le fazioni, al di là dell’ideologia. Per
Calabresi, questo avviene innanzitutto nel
grembo della famiglia, grazie al nuovo compagno della madre, Tonino Milite,
“pittore di sinistra”, figura
bellissima e fondamentale nel processo di emersione dal lutto dell’autore e dei
suoi fratelli, e a cui è dovuto anche il titolo del volume.
Così, domenica dopo domenica, anno dopo anno, abbiamo imparato cose che a dirle sembrano ridicole tanto dovrebbero essere patrimonio comune: che c’erano due Italie e che non ce n’era per definizione una buona e una cattiva, che entrambe avevano cose che ci piacevano, che da tutte e due le parti c’erano persone perbene, che a destra, a sinistra, al centro si potevano trovare risate, affetto, belle chiacchierate, discussioni, disagio o tristezza. (p. 81)
La metafora che viene proposta e sviluppata, in relazione al percorso che
devono attraversare tutte le vittime, ciascuna a proprio modo, è quella del naufragio:
Ho sempre paragonato ciò che ci è successo a un naufragio. All’improvviso si perde tutto, ci si trova sbalzati nell’acqua scura e profonda. Può succedere che il disastro sia annunciato dalla tempesta, ma ci sono anche le falde improvvise, gli iceberg, le orche. […] La parte dell’immagine che mi convince di più è il dopo: si può rimanere alla deriva per anni, per tutta la vita. Si può finire su un’isola deserta e scegliere di restarci. Molte delle persone colpite dai terroristi lo raccontano con lucida chiarezza: non siamo mai più riusciti a girare la pagina del calendario, il dolore e la rabbia ci hanno inchiodati a quell’attimo. È difficile uscirne con le proprie forze. […] Noi dobbiamo ringraziare mia madre che ebbe il coraggio di farsi aiutare da Tonino e la sorte che ci ha fatto nascere in una famiglia larga e ramificata. […] Essere strappati alle onde è un lavoro faticoso, le difficoltà non sempre si possono aggirare, diluire, trasformare o non vedere. (pp. 81-82)
La seconda parte di un breve volume che non
perde la sua forza neanche a distanza di anni dalla prima pubblicazione si
concentra sulla tensione fortissima, non risolta, tra la rivendicazione di un
riscatto sociale, talvolta anche politico, dei responsabili, e il desiderio di
riconoscimento e rispetto dei famigliari delle vittime. Se i primi infatti
trovano spesso spazio sulle testate giornalistiche, tra gli scaffali delle
librerie, nei banchi della politica, i secondi continuano, nell’ombra, a
scontare il loro “fine pena mai”. Per Calabresi,
bisogna partire dalle vittime, dalla loro memoria e dal bisogno di verità. “Farsi carico” è la parola chiave. Delle richieste di giustizia, di assistenza, di aiuto e di sensibilità. Lo dovrebbero fare le istituzioni, la politica, ma anche le televisioni, i giornali, la società civile. Un Paese capace di voltare pagina in modo sereno e giusto conviene a tutti, non certo e non solo a chi è stato colpito. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano lo ha capito. […] Ha parlato del rispetto della memoria delle vittime nel messaggio di fine anno, lo ha fatto a Milano e a Bologna […]. Poi ha scelto di scrivere a Repubblica dopo la lettera dei familiari degli uomini della scorta di Aldo Moro: “Il legittimo reinserimento nella società di quei colpevoli di atti terrorismo, che abbiano regolato i loro conti con la giustizia, dovrebbe tradursi in esplicito riconoscimento della ingiustificabile natura criminale dell’attacco terroristico allo Stato e ai suoi rappresentanti e servitori e dovrebbe essere accompagnato da comportamenti pubblici ispirati alla massima discrezione e misura” […]Ci vorrebbe una sensibilità diffusa, ma anche un sentire collettivo, e tutto questo non può essere una questione privata. E ancora si fa fatica a pronunciare parole chiare di condanna della violenza politica. (pp. 92-93, 94)
La conservazione e l’omaggio alla memoria passano anche attraverso il racconto e la testimonianza. Per evitare però quegli eccessi che hanno dato vita
in passato alla violenza, da ambo le parti politiche, è necessario disinnescare il pericolo della retorica.
A questo mira anche Calabresi, che in Spingendo
la notte più in là trasmette, con parole
chiare e precise, un messaggio che non è solo esempio di una buona pratica
giornalistica, ma anche prova di come si possano ricostruire fondamentale forti
anche sulle macerie lasciate da una precedente distruzione.
Sono i particolari a tenere viva la memoria, i ricordi pieni, vissuti e non la prosopopea. C’è un modo di coltivare la memoria insopportabile, commemorazioni in cui per ore si ripetono riti burocratici di una noia irritante. […] Dicono di voler tenere viva la memoria, ma questo è il modo sbagliato, soprattutto se si parla davanti a dei ragazzi delle scuole. […] Quando mi capita di partecipare a questi incontri, scelgo di parlare di mio padre come di un uomo normale, non di un eroe o di un marziano, di raccontarne debolezze e curiosità. Bisogna spiegare che gli “eroi” erano persone comuni, ma con la caratteristica di avere passione infinita per le cose che facevano, uomini con cui sia possibile identificarsi, che amavano il loro lavoro e lo facevano con scrupolo. (pp. 84-85).
a cura di Carolina Pernigo