Nata in Istria
di Anna Maria Mori
Rizzoli, 2013
pp. 289
€ 20,00 (cartaceo)Vedi il libro su Amazon
«L’Istria è condannata ad essere vista e vissuta da destra, o da sinistra. E tutte e due sono prigioni da cui dovrebbe essere liberata. Vorrei che restasse bella come è, buona da mangiare, e che diventasse finalmente più libera e meno tormentata. “L’Istria è dove sono nato. Perché le voglio bene? So solo che gliene voglio tanto, e basta”, e forse è la cosa più giusta, la più vera, la più onesta che un istriano possa dire a sé stesso e a tutti.» (p. 276)
C’è stato un tempo in cui ho misurato la bellezza dei libri in relazione alla loro capacità di farmi provare un’emozione forte. Ho dovuto leggere tanto per apprendere l’infondatezza della credenza che associa la forza all’intensità: c’è stato bisogno di libri delicati e vulnerabili nati da voci sensibili e quiete, dalle cui pagine si irradia un calore tenue che arriva all’anima per vie diverse da quelle dell’impatto emotivo forte e immediato. Nata in Istria è un libro che parla a chi si trova a suo agio nella dimensione del piccolo, perché tratta la storia di una popolazione che, per circostanze di natura politica e sociale scandagliate almeno in parte nel libro, è sempre rimasta ai margini della narrazione ufficiale della storia italiana. Da questa condizione di subalternità sembra quasi che il popolo istriano abbia ricavato un preciso modo di stare al mondo, che contempla una dignitosa attitudine alla riservatezza. È il fascino e forse la condanna di questa gente.
Quanti giovani conoscono la storia degli italiani istriani costretti all’esodo negli anni del secondo dopoguerra? Quanti sanno che fino a qualche decennio fa i confini italiani erano spostati più in là rispetto ad oggi? Secondo la mia esperienza, pochi, ma d’altronde ne avrei saputo poco anch’io se non provenissi da una famiglia che appartiene a questa storia. Ma Anna Maria Mori non si limita a fare luce su questo pezzo di storia così ingiustamente trascurato: illuminandolo, lo presenta al lettore in una chiave concreta e pratica che permette di cogliere la natura autentica del popolo istriano. Accade così che il parlare, ad esempio, dei piatti tipici istriani («forse è più facile masticarli e digerirli, la multietnicità la multiculturalità e il plurilinguismo, che non tentare di spiegarli a parole» p. 54) risponde a una scelta ben precisa: la volontà di conferire a questa storia un contorno di verità mai presentato dalla narrazione ufficiale, più orientata verso un’astratta commemorazione degli italiani infoibati, generiche espressioni di solidarietà all’insegna di una consolatoria semplificazione. Da queste pagine si rinnovano testimonianze e tradizioni di vita quotidiana che sembrano dire che questa terra di tutti e di nessuno, densa di richiami alla storia veneta e veneziana spesso ignorati da chi dice “vado in vacanza in Croazia e Slovenia”, esiste davvero e ha qualcosa da dire rispetto al passato e al presente dell’Italia. È straordinaria la raccolta di voci che Anna Maria Mori riesce a presentare in questo libro, restituendoci tasselli di vita vissuta che fanno chiarezza su cosa significasse essere italiani d’Istria.
Significava, in primo luogo, ritrovarsi vittime di un’ambigua equivalenza che associava gli italiani d’Istria ai fascisti. È chiaro che il fascismo in Istria, come del resto ovunque, si è macchiato di violenze soprattutto sui territori di confine, mettendo in crisi una penisola dove vigeva un secolare regime di convivenza multietnica. Ma forse qualcuno si sognerebbe di rinnegare la storia squisitamente italiana di Roma o Firenze in relazione a quanto accaduto in Italia nel ventennio fascista? Così è avvenuto in Istria. «Voi parlate sempre tanto in fretta per paura di perdere la vostra storia», è una delle affermazioni che si vide rivolgere da un cliente uno degli intervistati del libro, la cui famiglia aprì un piccolo ristorante a Trieste dopo l’esodo. Ed è proprio così: provate a parlare con una persona anziana giunta in Italia dall’Istria quando era bambina. Riuscireste a percepire l’urgenza di raccontare e di chiarire, di precisare che nacque in una città dal nome italiano che oggi non è più in uso, dalla quale fu strappato per arrivare in un campo profughi dove spesso si trovava tutt’altro che comprensione. Se in Istria gli italiani erano visti come fascisti, in Italia gli esuli hanno spesso subìto un’ulteriore esclusione venendo definiti slavi. Lo racconta bene un altro degli intervistati, che ricorda quando un insegnante di lettere nella sua scuola media di Trieste criticò il suo italiano dialettale dicendogli: “ma tu, perché parli così male l’italiano? Che lingua parli a casa tua, lo slavo?”. Paradossalmente, forse è stato tutto ancora più difficile per chi rimase a Trieste, in quanto costretto a subire «la tortura quotidiana di spalancare le finestre e vedere dall’altra parte del golfo di Trieste il cimitero dove sono sepolti il padre, la madre o i nonni, e il campanile della chiesa dove sono stati battezzati» (p. 92). Sì, essere italiani d’Istria significava tante cose, ma principalmente dover fare i conti con una Storia che ti voleva schierato da una parte o dall’altra.
La verità che ci consegna Anna Maria Mori è che fin quando il dibattito politico italiano continuerà a nutrirsi di ideologia, parlare di storie come quella degli italiani d’Istria sarà sempre difficile e ambiguo. Tutto si incentrerà sempre sulla sterile battaglia tra fascisti e comunisti. Qualcuno dirà: sono stati i fascisti il male dell’Istria, il comunismo di Tito è stata una conseguenza dura ma necessaria. Un altro risponderà: alla sinistra fa comodo dimenticare gli italiani d’Istria, perché vittime del comunismo. In mezzo, le voci sempre più fragili degli esuli, vittime di etichette affibbiate dai potenti, spesso incuranti delle persone dietro la Storia. Sullo sfondo, il mare dell’Istria continua a splendere di un mistero plurisecolare.
Alessia Martoni