di Perumal Murugan
Utopia editore, novembre 2022
Traduzione di Dorotea Operato
pp. 160
€ 19,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
«Questa non è una capra comune, badi bene! Sua madre ha dato alla luce sette cuccioli in un solo parto. Quando ha partorito il sesto, la guardavo pensando che fosse finita lì e che il cordone ombelicale sarebbe venuto giù. Ma la madre ha contratto il corpo e ha dato un'ultima spinta. Questa qui è stata partorita per settima, è caduta come sterco. Sappia, perciò, che è davvero un miracolo!» (p. 15)
Uno straniero spilungone così descrive la gracile capretta al vecchio contadino. Non vuole venderla, vuole solo affidarla a qualcuno che se ne prenda cura e la protegga. Il vecchio, che stava proprio pensando a come sarebbe stato bello avere un'altra capra da far pascolare, non esita a portarla a casa dalla moglie. Punacci, così viene chiamata la capretta completamente nera, va difesa dai predatori, va inserita nel gregge e nutrita con fatica visto che tutti la respingono. Lei si aggrappa alla vita, cresce, osserva il mondo con occhi liquidi. Nella sua visione animale e nella straziante dolcezza della sua voce apprendiamo come tutti siamo impastoiati da vincoli e che i più forti e i più crudeli sono proprio quelli dati dall'amore. La comprensione tra uomo e animale, d'altra parte, non potrà mai essere completa.
Ma le capre cercano sempre di scioglierne i nodi. Le pecore non hanno catene, per cui non provano mai a liberarsene. A che serve legarle, se inchinarsi è insito nella loro natura? Le pecore sono fortunate a vivere senza comprendere che inchinarsi significa essere schiavi. (p. 61)
Nella prefazione a questa storia, Perumal Murugan – autore di lingua tamil che negli ultimi anni ha sollevato l'interesse internazionale con due candidature al National Book Award per la letteratura in traduzione – spiega di come la capra sia l'animale migliore per scrivere storie di un certo ritmo. Cani e gatti sono destinati alla produzione poetica; non è consentito scrivere di mucche e maiali e, vista l'accusa di blasfemia che l'ha colpito dopo la pubblicazione di One part woman, l'autore è attento a ciò che narra; restano gli ovini e l'opinione sulle pecore è ben espressa dal passo citato. Punacci, storia di una capra nera è una riflessione sui vincoli che ci legano per tutta la vita: siano vincoli nei confronti delle istituzioni statali o siano quelli ben più insidiosi dell'amore, non c'è possibilità di liberarsi.
Punacci, questa gracile capretta donata in circostante quasi mitologiche, viene rifiutata perché diversa, da un lato, e cacciata e ricercata con bramosia sempre per via della sua straordinarietà, dall'altro. Le altre capre si rifiutano di nutrirla, i cuccioli la attaccano perché debole, aquile e gatti selvatici cercano di cacciarla e di fronte a un mondo così spietato, l'unica soluzione che Punacci ha è quella di affidarsi alla vecchia contadina che la sfama e la protegge e arriva a dichiarare con orgoglio a chiunque chieda.
Questa è una figlia acquisita che è venuta a casa mia. Una nobildonna giunta ad accrescere la famiglia. (p. 127)
Il loro rapporto si sviluppa proprio come quello tra madre e figlia o meglio, si sviluppa come il rapporto che noi umani abbiamo nei confronti dei nostri animali domestici: riversiamo su di loro attenzioni e richieste che non sono per loro sempre comprensibili e anche quando crediamo di far loro del bene non facciamo altro che confermare la sottomissione e le imposizioni che gli animali vivono per potersi adattare al nostro ambiente. Diminuendo, con la crescita, il rapporto di dipendenza che Punacci ha nei confronti della vecchia contadina emergono le divergenze tra le due razze. Punacci viene separata da Puvan, la capra di cui è innamorata, e sottoposta a un accoppiamento con un vecchio caprone per placare il calore. Viene allontanata dai suoi cuccioli perché sembra troppo esile per poterli nutrire a dovere. Gli umani sono convinti di fare del bene e in lei cresce un sentimento di fastidio e risentimento che diventa un odio mescolato all'amore: proprio come il percorso di ogni essere umano durante lo sviluppo adolescenziale. Se questa sovrapposizione con il rapporto genitore-figlio esiste, è altrettanto vero che la voce di Punacci non viene mai antropomorfizzata in senso estremo. Lei osserva il mondo con gli occhi animali non sempre capendo, ma nemmeno ergendosi a giudice dei comportamenti umani e, soprattutto, non diventando mai umana lei stessa.
Pensando a dove si trovasse, e al fatto che non riuscisse a dormire da sola nell'oscurità, provava paura. Si accorse di essere nei pressi di un grande stagno coperto da un manto di ninfee. Si avvicinò a una sponda e bevve fino a riempirsi lo stomaco. Non aveva mai bevuto dell'acqua così saporita fino ad allora. Le venne voglia di immergersi e nuotare, ma aveva paura delle piante che ricoprivano la superficie stagnante. Tenne a freno il desiderio. (p. 77)
Desideri basilari animali e sensazioni come la paura, la fame, il dolore vengono descritte in maniera così semplice ed efficace da sentire i belati lamentosi – spesso chiamati "pianto" – emergere dalle pagine e si mescolano a riflessioni più profonde quali la necessità di appartenenza a un gregge per avere sicurezza, e la consapevolezza che gli umani potrebbero macellarli per ricavare cibo o per un sacrificio.
Così come le capre, anche l'uomo deve assoggettarsi a vincoli governativi che danno la sicurezza del gruppo, ma che possono strozzare in ogni momento. Emblematico il caso della fila per far forare le orecchie al bestiame in modo da farne il censimento. I poveri pastori devono abituarsi a stare in fila, sotto il sole e senza cibo, in modo da imparare l'ordine.
«Anno dopo anno sta piovendo sempre meno. Se dovesse continuare così, vivremo tempi di carestia. E a quel punto sarà il governo ad aprire le cisterne di riso e a sfamarci tutti, così le persone non dovranno prendersi a palate per averlo, perciò dobbiamo abituarci a fare la fila già da ora». (p. 42)
Uomini e capre sono destinati alla stessa sorte ovvero ad obbedire a regole che non comprendono fino in fondo e che possono essere salvezza così come rovina. Sebbene accomunati dal destino, sono due razze che non potranno mai comprendersi fino in fondo: ciascuna convinta di fare del bene all'altra mescoleranno sempre amore e odio fino a portarsi alla distruzione reciproca.
Giulia Pretta