in

Raccontare la «voglia di dissipazione»: "Vuoto d'aria" di Clémentine Haenel

- -

 

Vuoto d'aria
di Clémentine Haenel
AlterEgo, settembre 2022

Traduzione di Valentina Maini

pp. 102
€15,00 (cartaceo)


Vuoto d’aria è il romanzo d’esordio di Clémentine Haenel, portato di recente in Italia da AlterEgo, con la traduzione di Valentina Maini: un esordio, ma un esordio del tutto particolare. In primis, esordire a venticinque anni con la casa editrice Gallimard significa aver fatto qualcosa con quel primo libro qualcosa di nuovo, maestoso e potente: così era stato per Gli armadi vuoti, primo libro di Annie Ernaux apparso nel 1974. Poi, è un esordio che è stato discusso un po’ da tutti, dalla stampa e dai lettori, e le opinioni sono state forti: il pubblico si è diviso tra chi ha provato fastidio e quasi odio – verso la protagonista, verso la prosa secca e ritmata di Haenel, verso il suo linguaggio crudo e corporale – e chi, per gli stessi motivi, l’ha trovato visionario e meraviglioso. Meglio comunque così che l’indifferenza del pubblico, ha detto Haenel alla presentazione del suo libro a Bologna; ma noi preferiamo collocarci sulla sponda degli ammiratori. 

La protagonista non ha nome, come non ce l’hanno gli uomini che frequenta, indicati con X, Y e Z. Tutto va in direzione di una perdita di identità e di sostanza dell’io della narratrice: ma riassumere le fasi di questa perdizione non è facile, perché Vuoto d’aria non è un libro di trama, ma di voce. La protagonista prende parola dalla prima pagina e non la lascia più, mentre il lettore viene travolto dalla sequenza fluviale di verbi in prima persona. Questo io tanto invadente, però, non è sintomo di narcisismo, quanto piuttosto del contrario: è l’ultimo appiglio linguistico di una volontà distruttiva che coinvolge la protagonista a livello psicologico, corporale, topografico. 
È come un piccolo fuoco che mi cresce dentro, in mezzo alla pancia, alla bocca dello stomaco, io la chiamo la mia voglia di dissipazione. Più passa il tempo più è raro, ma mi fa sempre piangere. C’è una volontà di far male a quelli che amo e mi amano, non tutti, qualcuno. Forse tutti. Non lo so più. Non sono lucida, non per forza lucida. Vedo la scena, immagino le scene. Le mie occasioni di tragedia. (p. 12)
Il titolo originale è, eloquentemente, Mauvaise passe, che potremmo tradurre in italiano come "un brutto periodo", o "passarsela male". Questa forza che annichilisce, la protagonista la subisce più cercarla, mentre passa di casa in casa, si mette nelle mani di molti uomini, lascia che il suo corpo sia usato e calpestato: «Sono oggetto di soprusi. Quando non voglio darmi davvero, ma mi ritrovo lì, come per forza. Quando brucia e si continua, quando tutto in me si rifiuta e si continua» (p. 11). Il discorso sul sesso è una continua provocazione: l’autrice guarda in faccia quella zona grigia del consenso, in cui sottomissione e consapevolezza si mischiano rendendo difficile, per la legge ma anche per la mente della protagonista, individuarne i confini e attribuire delle responsabilità. 
Ad aggravare la situazione c’è anche la patologia mentale della narratrice: ma mentre entra ed esce dagli ospedali psichiatrici, ogni volta rincarando la dose di medicine, il suo sguardo sulla realtà resta abbastanza lucido, il suo spirito critico intatto. 

La violenza è endemica nel romanzo: non solo violenza di genere, ma violenza che si infiltra in ogni pensiero dell’io, appassionato di storie di serial killer e ossessionato da visioni di omicidi violenti. È in fondo anche una scrittura estremamente onirica: quelle brame demoniache che ogni inconscio custodisce, ma che in genere si rivelano solo nei sogni e nell’analisi psicanalitica, la narratrice non si vergogna di raccontarle a un pubblico potenzialmente infinito. 
Il problema viene da un gatto: devo strangolare un gatto. Gli stringo il collo con un vecchio asciugamano blu. Questo asciugamano, lo riconosco, è quello che mia madre si annodava alle spalle quando si tingeva i capelli. Il gatto si fa sempre più piccolo, contuso. Ma respira. Dargli il colpo di grazia è difficile. (p. 35)
Un mezzo importante per raccontare la violenza è però anche l’ironia: Haenel racconta che da ragazza, crescendo nel quartiere di Pigalle, ha avuto modo di assistere a scene violente ma anche bizzarre, e che l’ironia è diventata per lei un modo di coesistere con le brutalità. 
Le ragazze che dicono di amare l’odore dei libri mi annoiano e mi fanno venir voglia di spaccare le loro teste contro i muri. (p. 58)
L’autrice sostiene di aver concepito inizialmente il libro come una conversazione tra due voci, dove l’una avrebbe dovuto spingere l’altra oltre il limite di ciò che è giusto dire, di ciò che non fa male e non disturba. Haenel ama gli autori dans ta gueule, quelli che gettano in faccia al lettore la crudità dei fatti e la sostanza dei pensieri neri, quelli senza mezzi termini. Alcuni di questi compaiono nel romanzo, che ha anche un tasso di intertestualità abbastanza rilevante: Jack London, Marguerite Duras, Doris Lessing, Milan Kundera occupano alcune delle letture della narratrice. 
Le tappe della dissoluzione della narratrice sono anche scandite dagli spostamenti: Parigi, il punto di partenza, poi una Londra «fosca e poco illuminata», il Nord-Pas-de-Calais dove si rifugia con. Y., New York che «stravolge, toglie il fiato». Sul finale, invece, una Svezia luminosa, che odora di foglie e di affumicato, riporta la speranza sul futuro e, soprattutto, sulla voglia di vivere il presente. 

Cosa resta al lettore, dopo aver terminato questo libro di un centinaio di pagine? Tante cose, tantissimi spunti, ma soprattutto due elementi. Uno è il ritmo martellante della scrittura, che raggiunge un grado di musicalità molto vicino a quello di certe canzoni rap (Haenel legge e scrive molta poesia); l’altro è la sensazione che il racconto della dissoluzione della narratrice – benché privo di una riflessione sistematica ma piuttosto basato sulle sensazioni del corpo – travalichi i confini della vicenda personale, e si faccia in qualche modo critica sociale. Quando, sempre all’incontro a Bologna, le chiedono se nel suo libro ci sia qualcosa di politico, Haenel risponde di sì: le storie personali sono politiche e la voce di una donna che scrive quello che alcuni vogliono far tacere, dice, è sempre e inequivocabilmente politica.

Michela La Grotteria