di Elin Wägner
Harper Collins, novembre 2022
Traduzione di Valeria Gorla
pp. 176
€ 15 cartaceo
€ 3,99 ebook
Forse un giorno romanzi e saggi che parlano della questione femminile e del patriarcato ci appariranno come rimembranze di un problema risolto; faranno l’effetto di distopie al contrario, ambientate e scritte in un passato in cui le discriminazioni nei confronti delle donne hanno attraversato epoche, luoghi e culture con gradi diversi di oppressione ma con lo stesso desiderio di controllare, reprimere, soffocare. Forse. A oggi, ahimè, non è certo questo il mondo e il nostro sguardo sulla letteratura e la critica femminista; non lo è nelle piazze infiammate dal coraggio delle donne iraniane ma non lo è neanche nell’Occidente che si fa portabandiera di una libertà molto spesso di facciata. E allora leggiamo a testi del nostro passato con quel misto di meraviglia e frustrazione, perché se è vero che molte cose sono mutate, ci sono ancora tante battaglie da combattere.
Con questo spirito mi sono immersa nella lettura di Ragazze di città della scrittrice svedese Elin Wägner, da poco in libreria per Harper Collins nella traduzione di Valeria Gorla, che nel 1908 ne segnò l’esordio sulla scena narrativa svedese e arriva per la prima volta ora in lingua italiana. Un romanzo che sapientemente riesce a mescolare ironia e dramma, messaggio politico e leggerezza e un ritratto assai vivido della società del tempo. Ad aprire il volume la puntuale prefazione di Camilla Storskog, professoressa associata di Lingue e Letterature nordiche all’Università degli studi di Milano, che ben inquadra l’autrice e l’opera nel contesto entro cui si sviluppa, sottolineandone gli agganci con la contemporaneità.
Un romanzo breve, le cui mie uniche perplessità sono dovute a certe soluzioni stilistiche – e francamente non so giudicare se siano scelte autoriali o di traduzione – ma che non oscurano la solidità delle intenzioni o il piacere intrinseco della lettura. Ambientato nella Stoccolma di inizio Novecento, Ragazze di città è il racconto in prima persona (e già questa una scelta molto moderna ed efficace per il tipo di storia narrata) della venticinquenne Elizabeth, alle prese con le difficoltà di guadagnarsi da vivere per sé e per il fratello più giovane senza appoggi famigliari, e del gruppo di ragazze lavoratrici con cui divide un appartamento in città, le tensioni sociali e quelle private. Partiamo dai margini, dalle riflessioni che non ne costituiscono il centro nevralgico ma che in qualche modo lo giustificano, lo rafforzano: in questo senso Ragazze di città è la voce giovane, ironica e appassionata di queste ragazze, dei loro intimi desideri, delle passioni che si scontrano con la morale entro cui sono imprigionate, dei fugaci momenti di spensieratezza giovanile, dei sogni già troppo spesso incrinati dalla realtà in cui si formano.
A quel punto ho calato il mio sipario e ho pensato: è tutto molto bello, certo, ma io ho la Libertà. Eppure nel profondo del mio cuore la detestavo, come fanno tutte le donne che siano donne, quando ce l’hanno. (p. 37)
I legami sentimentali, le passioni del cuore, le origini, l’amicizia stessa e la solidarietà che le lega l’una all’altra, sono elementi fondanti di una narrazione che ha nel suo centro il messaggio politico, il ritratto di un’epoca e un mondo in cui il desiderio e la necessità di indipendenza femminile si scontrano con l’ostruzionismo. Un Tendensroman - romanzo realista di tendenza sociale – che riflette le difficoltà e le ambizioni di una ben precisa classe sociale, che si intrecciano alla questione femminile. Wägner, pioniera del movimento femminista svedese, si batteva strenuamente per il suffragio universale e anche in questo romanzo d’esordio l’attenzione è concentrata sulle contraddizioni di un mondo che con la prima guerra mondiale aveva aperto le porte del mercato del lavoro alle donne, ma non ne accetta il ruolo nella sfera pubblica.
Oggi abbiamo avuto un litigio tremendo, mentre il capo faceva colazione. È finita come sempre: sono stata zittita, ma non convinta. […] i due giovani signori, davvero molto giovani peraltro, sono stati categorici nel dire che non abbiamo niente a che fare con il mercato del lavoro e che non facciamo altro che creare problemi. Il calo del numero di matrimoni è colpa della nostra presenza negli uffici. Abbiamo tolto di proposito il pane di bocca agli uomini. (p. 44)
L’ingiustizia sociale, le criticità sul lavoro e gli scioperi, le difficoltà economiche e, allo stesso tempo, la caparbietà con cui le protagoniste si ritagliano il proprio posto nel mondo, sottolineano quanto forte e radicato sia il desiderio di indipendenza femminile e quanta strada sia stata percorsa, con coraggio, attraverso battaglie e diritti sì acquisiti ma sempre in pericolo. E come certe questioni cruciali, purtroppo, sono ancora al centro del dibattito femminista:
[…] veniamo pagate più o meno la metà per lo stesso lavoro; anzi, non per lo stesso, perché Dio solo sa che noi riusciamo a fare molto di più! (p. 55)
La storia di Elizabeth e della sua banda di amiche, capace di mutare registro abbracciando ora l’ironico ora il dramma, ci ricorda che non sempre certe battaglie personali possono essere vinte e non per tutte loro ci sarà un happy ending. L’amicizia stessa e la solidarietà che le lega vacilla di fronte a certi ostacoli. Ma il lettore di Ragazze di città intuisce presto che non deve aspettarsi sterili soluzioni semplicistiche: attraversa le pagine, le strade di una Stoccolma vividissima, piena di opportunità e bellezza che non a tutti è dato il privilegio di godere, è accanto alle battaglie quotidiane di queste giovani donne che tentano di sopravvivere.
E forse, una volta uscito dalla storia, si guarderà intorno con più attenzione, consapevole del divario di opportunità che ancora esiste tra uomini e donne e da quella indignazione far partire il cambiamento.
Di Debora Lambruschini
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