Ciò che è più strano del fatto di trovarmi qui, a Parigi, da sola, nella sala di un museo etnografico, praticamente sotto la Torre Eiffel, è il pensiero che tutte quelle statuette che mi assomigliano siano state sottratte al patrimonio culturale del mio paese da un uomo di cui porto il cognome.
L'incipit del romanzo di Gabriela Wiener ci dà subito idea di quello che troveremo in questo testo, né romanzo né saggio, più vicino a un memoir di stralci di pensieri ed eventi: la protagonista è la stessa autrice, scrittrice, giornalista e performer peruviana che vive in Spagna da anni, che, a Parigi per lavoro, ne approfitta per visitare il Musée du quai Branly, il grande museo etnografico parigino che conserva la collezione di ben quattromila manufatti proveniente da Perù portati (rubati) da Charles Wiener. Wiener esatto, un uomo di cui l'autrice porta il cognome, il suo trisavolo secondo le storie che di generazione in generazione si raccontano in famiglia. È proprio quest'ultimo punto ad avermi incuriosita, credendo di leggere quasi un reportage-diario di un popolo colonizzato dai bianchi.
La parte più interessante, infatti, riguarda proprio quel poco che si conosce di Charles: esploratore austriaco, ebreo, poi naturalizzato francese, era uno haquero, un tombarolo che saccheggiava aree archeologiche. In qualche modo riuscì, con raccomandazioni, a farsi sovvenzionare un viaggio in Perù dove per un soffio non scoprì il Machu Picchu. È passato alla storia per il suo libro di viaggio Perù y Bolivia, e secondo l'autrice era migliore come scrittore che come esploratore per i suoi metodi scientifici poco ortodossi, per essersi appropriato di scoperte non sue e aver utilizzato mappe di altri. Ancora: ho scritto che era ebreo ma a un certo punto della sua vita decide di convertirsi per poter entrare nell'eccellenza scientifica del tempo. Infatti riuscì a esporre all'Esposizione Universale di Parigi non solo artefatti ma persone: aiutò a creare uno zoo umano, mettendo letteralmente in mostra adulti e bambini con i loro vestiti tipici e le loro tradizioni, credendo che un po' di piante tipiche dei loro territori potessero sostituire la libertà e il calore di casa. Charles fu anche molto duro con i giudizi nei confronti dei peruviani, «gente con una costituzione esagerata e malsana», barbara, che aveva bisogno dell'uomo bianco per riuscire a ritrovare un po' di civiltà. Ritorniamo al fatto che fosse ebreo: da vittima a carnefice grazie al potere della religione e della conversione. Nonostante ciò non mancò di avere relazioni sessuali con donne malsane durante i suoi viaggi e pare che da una di queste, María Rodríguez, ebbe un figlio, ed è forse, alla fine, lui l'avo di Gabriela. Di gran parte della sua vita, soprattutto quella personale, non si ha traccia. Così come in Sanguemisto non vi è traccia del libro di Charles, unico documento originale che potrebbe darci contezza del suo stile, del suo pensiero, dei suoi spostamenti. Un'operazione interessante in tal senso, anche se trattasi di romanzo, è quella di Maisy Card e il suo Fantasmi di famiglia, in cui stralci del diario di invenzione ma certamente verosimili, ci vengono messi nero su bianco in tutta la loro crudezza in una storia che affronta tematiche molto simili.
Fin qui sembra che il libro abbia risposto alle mie aspettative, invece arriva la parte che mi ha convinto meno e che mi fa un po' storcere il naso a leggere «libro necessario» (in realtà anche senza questa parte meno riuscita non lo ritengo un libro necessario perché non aggiunge nulla di nuovo). Il racconto di Charles è inframmezzato dal racconto di vita della nostra autrice/protagonista: la morte del padre diventa il motore dell'azione, ciò che la spinge a cercare notizie sui suoi avi e mettere in discussione se stessa e la propria relazione, e non quindi la visita al museo e il riconoscerci in quelle statuette «dalla pelle marrone, gli occhi come piccole ferite brillanti, i nasi e gli zigomi di bronzo levigati quanto i miei». Mi sembra forzata e non dettata dalla realtà, una scelta di voler infarcire un testo breve e denso di tante altre tematiche. Cosa c'è di più forte che riconoscere il proprio corpo in quello di altri, che siano statuette o donne nere, choles, o rivedere il disgusto e la paura negli occhi dei bianchi? Qui non è in discussione il dolore derivante dalla morte di un padre, così come il suo tentativo di ritrovarlo nelle email che si scambiavano, nei messaggi del suo cellulare. O di cercare per forza una somiglianza con lui nell'essere fedifraghi. E ancora, incontrare la sua amante dopo la sua morte. Ancora mettere così tanto l'accento sulla relazione poliamorosa dopo che ha tradito la fiducia dei suoi compagni, descrivendoci i silenzi e la sua gelosia, la sensazione di non essere amata perché non bianca (pur avendo un marito cholo) con metafore che tentano di dare poeticità ma risultano fuori contesto e stile.
Sono l'uccello carnivoro trasformato in preda che sorvola lentamente i suoi cacciatori.
Il corpo e la sua decolonizzazione avviene attraverso il sesso con una donna nera? Credere di amare una donna bianca in quanto bianca perché «bianco è bello» ed è il colore del colono che tutti i choles vorrebbero essere? Probabilmente sì, probabilmente il pensiero che essere bianchi renda tutto più semplice è reale e ricorrente ma l'impressione è che il corpo legato al sesso sia stato inserito a forza in questo discorso, più per giustificare tradimenti e non riuscita di una relazione a tre. Così come appare una giustificazione pensare che
forse, l'abbandono originale, quello di Charles nei confronti di María Rodríguez, non opera nelle ombre del mio lignaggio? E quello di mio padre, il cinquanta per cento che ha lasciato a noi?
Viviana Calabria