Adattarsi
di Clara Dupont-Monod
Edizioni Clichy, agosto 2022
Traduzione di Tommaso Gurrieri
pp. 160
€ 17 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)
Una casa con cortile e un muretto di pietre tra le montagne francesi; una famiglia unita, due genitori, un figlio e una figlia. In questo contesto idilliaco arriva un giorno un elemento inaspettato: nasce «un figlio inadatto», un bambino che poco tempo dopo la nascita si rivela gravemente disabile. Non vede, non potrà mai camminare o parlare come gli altri bambini, e la sentenza del medico è chiara: non più di tre anni di sopravvivenza.
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Ma quel bambino di passaggio, che è rimasto in vita per pochi anni e non ha mai potuto esprimersi, avrà dato alla fine forse ancora più coesione alla sua famiglia.
Adattarsi, di Clara Dupont-Monod, è un libro eccezionale per molti versi, ma sicuramente perché riesce a raccontare un grande dolore familiare con toni gioiosi e quasi fiabeschi: la voce narrante è infatti quella delle pietre della casa, testimoni del passaggio delle stagioni e metafora del calore domestico e della forza di quella famiglia. Per il resto, tutti i personaggi restano anonimi, indicati solo col ruolo familiare che ricoprono, “il maggiore”, “la minore”, “l’ultimo”: anche in questo modo l’autrice riesce a rendere universale una storia nata da un’esperienza personale, e a sollevare tematiche scomode come il giudizio degli altri, «forti della loro efficiente normalità», la mancanza di assistenza da parte delle istituzioni sanitarie e il vortice infernale della burocrazia.
Tra i più larghi successi editoriali dello scorso anno in Francia, Adattarsi ha vinto numerosi premi – tra cui il Prix Fémina e il Goncourt des Lycéens – ed è uscito in Italia per Clichy. Abbiamo incontrato Clara Dupont-Monod, deliziosa e spiritosissima, a Roma, in occasione della presentazione del suo libro a Più Libri Più Liberi.
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Il bambino fa poco più che sopravvivere, perché non può interagire con nessuno. Eppure lei scrive che lui, benché non potesse imparare niente, avrebbe potuto forse insegnare qualcosa agli altri. Cosa insegna alla sua famiglia?
Insegna loro a essere più tolleranti. In effetti, rimette in questione l’idea di norma; cos’è normale? Se bisogna adattarsi all’inadatto, chi è il più diverso dei due? In un punto la sorella cerca di prendere in braccio il piccolo, ma non ci riesce, il bambino le scivola, lei ha paura: in quel momento ha un handicap tanto quanto lui. Con questo libro volevo rendere omaggio a tutte le persone lontane dalla "norma", che non sono certo meno degli altri, anzi piuttosto hanno qualcosa in più. Dobbiamo uscire dal nostro comfort e metterci alla loro altezza: il potere del bambino è di obbligare i suoi fratelli a fare questo sforzo. Nonostante non possa parlare, vedere o camminare, è lui che li spingerà verso zone che dei bambini non avrebbero esplorato altrimenti.
Infatti il concetto di norma è problematizzato su più livelli: per la burocrazia, ad esempio, il bambino per essere aiutato dev’essere disabile al punto giusto, né troppo né troppo poco.
Esattamente. È la situazione di praticamente tutte le famiglie in Francia: abbiamo una burocrazia che dovrebbe aiutare le famiglie ma non le aiuta affatto, e questo è uno scandalo, molte finiscono scoraggiate. Ogni tre anni in Francia bisogna dimostrare che il figlio sia ancora disabile. Ma si rende conto? È qualcosa che mi rivolta, ed è come se la burocrazia fabbricasse un nuovo handicap, invece che eliminare il primo.
Forse questo suo modo di approcciare diverse questioni attuali e sociali è alla base del successo che il suo libro ha avuto in Francia soprattutto tra i giovani: pensa che la letteratura possa essere un mezzo di sensibilizzazione più efficace del dibattito pubblico o politico?
Assolutamente. Penso che la letteratura adori le zone d’ombra; la letteratura va dove la politica o gli specialisti non vanno, è la sola che lo può fare. Una di queste realtà silenziose è quella delle famiglie che si battono nell’ombra, e di cui non si sente mai parlare. In Francia il 20% delle persone è dichiarata disabile: benché ci siano diverse forme di handicap possibile, resta un dato enorme, e nessuno ne parla. Le famiglie che affrontano queste situazioni da sole per me sono valorose : io amo questa parola dal suono un po’ medievale, “prodezza”, che è più di coraggio e si sposa perfettamente alla situazione. Di fronte alla minaccia, al pericolo, la loro è una prodezza silenziosa, e solo la letteratura può parlarne. Ovviamente non riguarda solo chi ha in famiglia un disabile, ma tutti coloro che a un certo punto della vita devono affrontare un problema, un cambiamento rispetto alla normalità.
Perché immediatamente ci si sente soli di fronte al problema e isolati rispetto agli altri, ai «normali», se vogliamo usare questa parola.
Proprio così. C’è una forma di tirannia della norma, ci viene imposto di essere in un tal modo e la diversità riguarda tutti i casi della vita in cui non ci si sente così. Mi ha fatto piacere vincere il Goncourt dei liceali, perchè questi ragazzi tra i 15 e i 18 anni mi hanno detto che, pur non conoscendo situazioni di disabilità, capivano perfettamente la necessità di adattarsi, magari di fronte al cambiamento della propria voce o alla separazione dei genitori. Così mi sono resa conto che l’adolescenza è il momento dell’adattamento per eccellenza. È anche vero che ci sono molti che comprendono cosa significhi la perdita di una persona e il doversi adattare a vivere senza questa persona. Ogni volta che qualcosa cambia nella vita, c’è bisogno di adattarsi.
Perciò il libro ha una portata universale: anche grazie al fatto che i personaggi non abbiano nomi propri, ma siano indicati solo col ruolo famigliare che ricoprono.
È vero. In realtà quando ho cominciato a scrivere Adattarsi ciò che mi interessava non era il tema della disabilità, ma la relazione tra fratelli. Quando dei fratelli parlano di uno stesso evento, scoprono di non averlo vissuto in maniera uguale, ma diversa in base alla posizione che ricoprivano in famiglia.
Infatti ciascun fratello si adatta in maniera diversa alla presenza o assenza del bambino disabile. La minore prova rabbia e vergogna, una reazione “poco corretta” di cui si fa fatica a parlare.
E soprattutto lei si vergogna di avere vergogna. Ho amato scrivere di questo personaggio perché in un primo momento si rivolta, quindi non riesce ad adattarsi. Trova che l’arrivo di questo bambino sia ingiusto, ed effettivamente è così; inoltre, il bambino le ruba l’attenzione del fratello maggiore che lei adora, oltre al fatto che il suo corpo la disgusta, e in questo non c’è niente di male, è naturale. Ma la paura viene dall’ignoranza, quando uno non conosce una realtà ne è spaventato e può reagire così. C’è bisogno di dare spazio a questa parola, e la letteratura può farlo benissimo. La collera è un elemento letterario formidabile, e in più lei crescendo riesce a trasformarlo in qualcosa di costruttivo, cosa inaspettata.
Soprattutto se si confronta col maggiore, sempre così solido e responsabile da ragazzo.
Il maggiore è forse il più rivoluzionario! Siamo in una società che ci forza sempre ad avanzare, guardare avanti, correre più in là. Lui invece no, dice «ho amato una volta, è stata talmente intensa che non lo potrei rifare ancora», e non c’è nulla di sbagliato in questo. Per lui c’è una differenza tra vivere senza qualcuno e vivere con l’assenza di qualcuno: è una scelta, lui sceglie di vivere con l’assenza del bambino, si adatta a modo suo, mentre la minore rientra in una sorta di norma.
Insomma lui è quello che resta fuori dalla norma, come suo fratello.
Esattamente, lui è quello che rimane più vicino alla differenza del bambino, perché lui stesso rimarrà diverso dagli altri. Me ne sono appena resa conto parlandone insieme!
E poi c’è il piccolo, l’ultimo
Lui ha una sfida che gli altri non hanno, deve affrontare la domanda «se tu non fossi morto, io sarei qui?» e molte persone nate dopo un bambino morto hanno capito di cosa si tratti. Per lui il tema non è l’handicap, l’adattamento per lui riguarda un’altra situazione. Sono bambini della convalescenza, che spesso cercano di fare il meglio possibile perché accanto a loro c’è il fantasma di un fratello venuto prima.
Sono tematiche forti quelle che affronta nel libro, eppure la sua scrittura resta estremamente gioiosa.
Oh, questo mi fa piacere. È una scrittura molto sensoriale, volevo restare vicino alla sensazione, non volevo scrivere «lui è triste », ma restare vicina alla sensazione della tristezza. La presenza della natura serve a questo: il bambino è immerso solo nel sensoriale, olfattivo e uditivo, e questo è stato difficile durante la scrittura, cercare la formula più giusta per tradurre una sensazione.
Nonostante la vicenda sia abbastanza personale, non ha scelto la strada dell’autofiction ma al contrario ha creato una narrazione quasi fiabesca, con l’espediente bizzarro delle pietre di casa che prendono la parola e raccontano.
Il mio editore mi ha chiesto se fossi impazzita! In realtà la mia famiglia è delle Cévennes, sono cresciuta in un universo minerale. Per dire, mio nonno dava un nome alle pietre: diceva «attenzione, non calpestare Marie!». Dunque gli unici che hanno trovato normale questa soluzione sono i miei genitori, per me è qualcosa di molto naturale; ho realizzato poi che uno scrittore è colui che davanti alle rovine pensa «ah se le pietre potessero parlare!». Ebbene, io le ho fatte parlare.
Alla fine di tutta la vicenda, quel che resta è l’amore familiare e, per citare le sue parole, adattarsi significa «fare con» e non «fare contro». Può valere anche come auspicio per la società contemporanea, specialmente dopo la pandemia?
Assolutamente. Io penso che ci voglia una vita per imparare a fare con, mentre questi fratelli hanno avuto un apprendistato accelerato. Ma non bisogna confondere adattarsi a rassegnarsi: bisogna adattarsi quando non si può cambiare le cose. E la stessa logica vale per la montagna: è l’uomo che deve adattarsi e non viceversa, non si può decidere di ignorare la neve e andarsene a camminare. Questa logica della montagna bisogna applicarla alla nostra vita, mi rendo conto che sia difficile. Ha ragione a citare la pandemia, è stato stupefacente come siamo riusciti tutti ad adattarci, mentre all’inizio il fatto di essere chiusi in casa e respirare tramite mascherine sembrava assurdo.
Nei primi tempi del lockdown in Italia si diceva che ne saremmo usciti migliori. Secondo lei è successo?
Ah sì! Io sono ottimista, ma basta guardare ai legami familiari. Tutti eravamo chiusi in casa e ci preoccupavamo dei parenti, tutti a chiedere come sta la nonna? come sta lo zio? A volte mi dicono che il mio libro non è moderno, perché è un omaggio alla famiglia. Ma allora nessuno è moderno, perché anche quando non si ha una famiglia si cerca di ricostruirla, al lavoro o con gli amici. È un’unità fondamentale, che i social non ci danno. I social danno un pubblico, una comunità che non ha niente a che vedere con il legame familiare o affettivo che si può avere con qualcuno di vicino a noi. Infatti, non ci sono telefoni nel libro, tranne in un passo alla fine: è per ricordare che anche senza telefoni, non stavamo così male. Ho voluto creare un libro in cui i rapporti fossero solo faccia a faccia, non attraverso uno schermo.
Introduzione e intervista a cura di Michela La Grotteria
Foto scattata da Michela La Grotteria durante la manifestazione di Più libri più liberi, Roma
Ringraziamo l'autrice e la casa editrice per la generosità e la disponibilità
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