Il Cristo iracheno
di Hassan Blasim
Utopia, 2022
Traduzione di Barbara Teresi
pp. 140
€ 18,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Quando leggo una raccolta
di racconti, dedico sempre un tempo supplementare a quello – se c’è – da
cui è derivato il titolo complessivo; per qualcuno infatti (si tratti
dell’autore stesso, di un suo congiunto, del curatore, dell’editore…) questo ha
incarnato il senso dell’opera tutta, forse ne ha sintetizzato i temi, o
riassunto lo spirito. È importante per me cercare di capire partendo da lì. In
questo caso, “Il Cristo iracheno” è il quarto testo che si incontra. Quando ci
si arriva si ha già avuto modo di familiarizzare con la prosa incisiva, diretta, di Hassan Blasim, con il suo condensare in frasi lapidarie il dramma di
un popolo (“eravamo bombardati da
ogni direzione: dall’ignoto, dalla realtà, da Dio, dalla gente, perfino i morti
ci tormentavano”, p. 8), di una
famiglia (“le nostre vite […] sono
esplose come petardi. Disseminate nel cielo di Dio”, p. 11), di un soggetto (“lo ricordo come un santo in un mattatoio umano”, p. 8).
Le guerre, la caduta del dittatore, il fondamentalismo
religioso, tutto è presente sulla scena, ma non descritto, semmai evocato attraverso lampi di frase,
d’immagine. Baghdad è un “fiume
dell’inferno” (p. 28), in cui al dolore collettivo derivante dal caos,
dalla violenza, dall’oscurantismo, si sommano gli infiniti, frammentari dolori
individuali, come quelli che le persone vogliono raccontare a Radio Memoria, a
costo di fare code lunghissime sotto il sole o la pioggia, come si legge ne “Il
canto delle capre”, o quelli dei malati terminali che osservano la vita da una
prospettiva marginale, ormai quasi postuma, ne “La finestra al quinto piano”.
Il quarto racconto si apre, come i precedenti, con una
narrazione in prima persona che
appare già dominante (i narratori sono protagonisti o testimoni, in tutti i
casi garanti della veridicità di quanto narrato, per quanto incredibile possa
sembrare). Nella guerra del Kuwait, i soldati si trovano inermi, bombardati
dall’alto, incapaci di difendersi. I termini per descriverli sono tratti dal
mondo animale: sono “anatroccoli”, “pecore”, “topi” nelle trincee; combattono
“guerre da fumetti”, in cui l’unica speranza viene da un cristiano, Daniel,
detto “Cristo chewing-gum”. Le sue premonizioni non hanno niente di mistico,
passano sempre attraverso il corpo (un mal di stomaco, tre starnuti, un
insistente prurito ai testicoli). Anche dopo la guerra, il peso del mondo grava
sulle sue spalle, nelle forme di una cupa depressione: la sua sensibilità
esacerbata non gli pare dono, ma maledizione. Si occupa con assoluta dedizione
della madre inferma e rifiuta di salvarsi abbandonando il paese quando
potrebbe. Il suo sacrificio, supremo atto d’amore, ha la forma di un attentato
kamikaze. La verità non può però essere svelata in questa vita.
Nella produzione letteraria irachena manca la
dimensione del fantastico, commenta il narratore di uno dei racconti
precedenti (“Stavo lavorando alla mia
tesi sulla letteratura fantastica. Ero colpito dall’assenza di questo particolare
genere nelle belle lettere del nostro paese”, p. 30). Questa, in una forma
contaminata, sempre ancorata al reale, torna però prepotente nella raccolta. Le
occasioni sono molteplici, e per tutte deliberatamente non è fornita, né deve essere richiesta spiegazione: dalla buca che
mette in contatto il passato e il presente, in un’esperienza che da onirica si
fa orrorifica, per diventare poi metafora dell’esistenza (“La buca”), agli
spiriti dei defunti che occupano il corpo dei viventi, instaurando nella loro
testa un duello dialettico che può condurre alla follia (“Parole crociate”);
dal fantasma che riemerge dal passato per saldare i conti in sospeso (“Non uccidermi,
ti prego… questo è il mio albero!”), al gruppo di amici che per cambiare il
mondo fa scomparire e riapparire coltelli, in uno dei racconti più riusciti
della raccolta (“Mille e un coltello”). A narrare sono per lo più voci maschili. Quello che descrivono è
l’apprendistato a una vita violenta,
irrisolta. Le domande di senso che
emergono dalle loro parole possono anche oltrepassare i confini dell’esistenza:
è il caso del narratore di “Sole e paradiso”, ex cecchino e jihadista morto sul
campo, che attende in un paese riarso di poter “passare dall’altra parte” (p. 90), fino a dubitare dell’essenza
stessa del Paradiso che gli è stato promesso.
Va detto che la lettura integrale
della raccolta risulta complessa per
il lettore occidentale. Ci si dibatte nel groviglio
che è la storia irachena degli ultimi decenni e ci si rende conto
inevitabilmente della limitatezza delle proprie conoscenze. L’autore, che è
stato costretto a fuggire dal proprio paese e ora vive come rifugiato in
Finlandia, pone in essere una pesante
critica della società irachena, ma lancia sottili strali anche verso la
comunità internazionale, che è rimasta a guardare l’avvicendarsi dei governi,
il susseguirsi dei conflitti, il perpetrarsi dei soprusi (“una partita sanguinaria che la comunità internazionale cerca di
supervisionare a distanza, attraverso la vendita di armi, bugie e lacrime da
coccodrillo”, p. 95). Si ha l’impressione che sia precisa volontà di Hassan
Blasim risultare destabilizzante,
muovere il lettore a una ricerca personale lungo diverse direttrici.
La complessità è aumentata, anche a livello
strutturale, dal fatto che molto spesso
le storie contengono altre storie. Il narrare diventa cifra costitutiva della
conoscenza, della trasmissione dell’immaginario di un popolo, di quanto già
scritto e di quanto invece si va definendo giorno dopo giorno; tale idea viene
tematizzata anche ne “L’albero di Sarsara”, dove si parla degli abitanti di un
paesino che hanno inventato una propria lingua, fatta tutta di metafore, per
“scongiurare il male”, e di una donna che riesce a dar forma e vita alla materia
grazie al suo solo immaginare (“Sarsara
quell’albero lo aveva soltanto immaginato, ma tanto era bastato farlo crescere”,
p. 103). Nell’alternarsi di elementi
surreali e dettagli invece di grande concretezza, i racconti paiono quasi
diventare una forma di esorcismo, visto che non possono essere una cura:
la magia delle parole era una pioggia che dissetava l’anima, e la vita per me era diventata un’idea e un sogno: l’idea era una palla e il sogno due racchette da tennis. […] Ero come una bestiolina entrata nella tana di un animale enorme. […] Forse mi ero perso e non avevo altra bussola che la mia passione e la mia paura per le infinite sfaccettature della vita. Un’idea ne confutava un’altra e un concetto ne nascondeva un altro. Una teoria ne rendeva un’altra doppiamente misteriosa. (p. 128)
È la mancanza di risposte a innescare sempre nuove domande, lo scorrere
inevitabile e talvolta crudele dei giorni a spingere i protagonisti dei
racconti, nelle loro esperienze e quotidianità così diverse, dal lato giusto o
quello sbagliato della storia, a muovere un passo dopo l’altro. E sono, infine,
i testi stessi a indurre il lettore a interrogarsi su quanto asserito
all’inizio della raccolta – “In questo
mondo effimero, ogni cosa è scritta” (p. 8) – e a provare a esplorare quale
spazio sia invece dato, effettivamente, all’essere umano.
Carolina
Pernigo