Eppure, al di là del ritmo di accelerazione graduale del cambiamento, ci sono alcune cose che rimangono costanti. Io credo fermamente che il Natale sia una di queste. Non mi riferisco agli aspetti superficiali (gli stili decorativi e i modi di festeggiarlo), ma al vero significato di questa festa.
Per lei, le storie erano un modo (forse il miglior modo possibile) per tenere a mente che eravamo e in cosa credevamo; ma erano anche divertenti, e le piaceva molto raccontarcele.
Queste parole esprimono in maniera precisa quello che è, secondo me, il vero intento di James Kilgo, esplicitando quel “e altre storie americane”: mostrare l’America degli anni ’40-’60 con gli occhi di un bambino. Oltre a dare alla nipote la possibilità di conoscere qualcosa della sua famiglia, di un tempo che fu e di cosa, come scrive all’inizio, è rimasto immutato negli anni. Mi sembra che, nonostante non possa dirsi un libro di valore e che lascia il segno ma uno di quelli che si fanno leggere con leggerezza, riesca a dare degli spunti di riflessione. Il Natale, quindi, è sia una scelta “obbligata” perché già presente un punto di partenza, sia forse un contenitore di situazioni rimaste di più nella memoria personale e collettiva della famiglia perché legate a un periodo che dovrebbe essere felice e spensierato.
In “La promessa” si affaccia lo spettro della guerra. Il padre dell’autore era lontano da diverso tempo e anche se James aveva solo tre anni e mezzo, era «troppo grande per venire distratto così facilmente. Non avevo dimenticato mio padre, come avrebbe potuto fare un bimbo piccolo, ma non riuscivo a sopportare la sua assenza in silenzio». La fede in Dio a quell’età è la preghiera di veder tornare il papà per Natale e, magari, portato in dono proprio da Babbo Natale. In questa storia, anno 1944, il padre ottiene una licenza di 48 ore per tornare in famiglia ma il viaggio è lungo 400 miglia: come fare? La madre, Caroline, non si dà per vinta e chiede al suocero una macchina in prestito (proprietario di una concessionaria). Immaginate una donna bianca nel sud dell’America che si mette in viaggio da sola per tutte quelle ore. E ora immaginatela accompagnata da un uomo di colore. Piccoli sprazzi d’America.
“Il Lionel” parla di attesa per i regali tanto agognati come il famoso trenino elettrico Lionel che James riceve grazie ai sacrifici economici dei genitori, desiderosi di vedere il proprio bambino felice e non in difetto rispetto agli amici. Anche Phil e Bobby hanno ricevuto un trenino, ma quello di Bobby è meno accurato del suo, eppure «non trovai nessuna differenza tra la mia felicità e quella di Bobby». Attesa di uno sguardo, una parola che ti dia la sensazione di essere vivo: Howard è un personaggio che entra di sguincio. Ha l’aspetto di un senzatetto, dorme dove può, aiuta se gli viene chiesto. Eppure. Eppure sembra avere tanti soldi, più di quanto ci si possa immaginare.
“La recita di Natale” racconta di adolescenza, ormoni, prime cotte, prima tv in famiglia, dubbi sulla religione. Ma racconta anche della necessità della famiglia dell’autore di fittare il piano di sopra della loro villetta e dell'arrivo di una coppia in attesa di un figlio. Si erano sposati troppo presto, lei aveva 19 anni e lui 24, perché lei aspettava il primo bambino, purtroppo perduto. Si spostavano in continuazione, forse perché non trovava lavoro o perché si era messo nei guai ma «non con la legge».
“Il presepe di legno” introduce un altro personaggio particolare, un incontro lampo che ha di certo lasciato traccia nel vissuto dell’autore. Peter è un uomo che da Miami arriva nella Carolina del Sud a piedi, trascinando una croce perché gliel'ha detto Dio. Un uomo che con la sua testimonianza così naturale, non fanatica, ha in qualche modo aperto dei dubbi sul senso della fede. E nello stesso racconto l'autore parla del presepe che negli anni ha costruito aggiungendo un pezzo di volta in volta, facendone una tradizione di famiglia, anzi qualcosa di più: in quel presepe ci vedrebbe bene come statuine tutte le persone ritrovate in questi ricordi. «[...] Tutta questa gente segnata dalla vita, che alla fine trova casa nella luce della stalla».
Il termine “attesa” l’ho usato solo per parlare del secondo racconto, in realtà, scrivendo, mi accordo che ogni narrazione è incentrata sull’aspettare: regali, persone, risposte, felicità, domande... Che il Natale sia, allora, il momento in cui si attende qualcosa che modifichi lo status quo, l’occasione per guardare a ritroso tutto l’anno trascorso per riprendere le fila di sé e della propria vita, dando un senso a ogni persona ed evento accaduto? In attesa dell’anno nuovo, il momento in cui si scelgono gli obiettivi futuri a partire dal passato.
«Nessuno guarisce dalla propria infanzia» scrive Zerocalcare, una frase che si addice perfettamente a quanto raccontato nel libro. L’infanzia, nel suo caso, gli ha permesso di portare con sé quel senso di calore che il Natale porta con sé, quel moto di stupore per le luci, per il presepe che gli ricorda il focolare della nonna con tutta la famiglia intorno; sensazioni trasmesse anche ai figli e, con questo libro, la speranza è di non essere da meno con la nipote.
Viviana Calabria
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