Senzanome
di Mirfet Piccolo
Giulio Perrone Editore, novembre 2022
pp. 236
€18 (cartaceo)
Si può dare un nome al Male? Si può nominare qualcosa di crudele, e spaventosamente privo di senso? È la domanda che attraversa la narrazione di Mirfet Piccolo in Senzanome, romanzo d’esordio appena pubblicato per Giulio Perrone.
Una donna, che ha una figlia di sei anni e ha paura della notte, apre un cassetto della sua scrivania e ci trova un blocco di post-it: è interamente scritto, e i foglietti, per uno strano controsenso ontologico, sono stati rincollati uno sull’altro invece che dispersi su altre superfici. I 253 foglietti, che ritraggono luoghi e persone della sua vita, disposti in ordine cronologico costituiscono un mosaico autobiografico: e lei li legge insieme a noi lettori, che veniamo così esposti alle innominabili oscenità perpetuate su di lei sin da bambina.
Un padre inesistente, una madre – denti marci, fanatica religiosa – che le dà della «puttana» e dell’«ingrata» quotidianamente, una sorella che sparisce presto dai racconti, un ambiente di rigida povertà: è solo lo scenario di partenza di una vita difficile, passata tra orfanotrofi e affidamenti temporanei, abusi sessuali ripetuti, ingiurie e discriminazioni. Sopra tutto, la condanna che si porta addosso, marchiatale a fuoco dalla società: «tu sei nata nel niente e quindi vali niente, tu sei stata vittima e quindi il tuo destino è essere carnefice».
Niente e nessuno ha un nome, nel romanzo. Neanche la narratrice, che si racconta sempre in terza persona e si indica con le etichette che ha indossato nei diversi momenti della sua vita: è «la bambina che non gioca» all’inizio, poi «la bambina in affidamento», «la studentessa», «la giovane donna che», «la madre che». Seguendo anche solo queste denominazioni si può ricostruire il percorso di una bambina che ha preso coscienza troppo presto delle miserie del mondo («Dieci anni quanti sono? Dieci anni sono tanti o pochi?»), della crudeltà dei soprusi e dell’assenza di giustizia per le vittime, e che ha attraversato un percorso per uscire da quel pantano, per non essere la donna che rischiava di diventare ed emanciparsi grazie allo studio.
È senz’altro una storia di riscatto, ma per i sentimentalismi non c’è spazio in questo romanzo: la scrittura di Mirfet Piccolo è onesta e asciutta, questo è il modo migliore per descriverla. Nessun patetismo o ricerca di compassione nel lettore: il ricordo delle violenze subite fa orrore di per sé, ma è grazie alla maestria dell’autrice che diventa letteratura, e non confessione diaristica.
La notte li inghiotte, loro e lei, perché ogni cosa che succede in quelle ore, e che nessuno a parte loro sa, alle prime luci dell’alba deve cessare di esistere per poter ricominciare. In un rituale ogni cosa ha il suo tempo e il suo spazio ed essi sono precisi, studiati meticolosamente affinché niente vada storto, affinché la notte non crolli per sempre. (p. 102)
La notte è un fil rouge della sua storia: sarà prima «la bambina», poi «la donna che ha paura della notte», se con notte si intende il buio in cui le cose più oscene accadono, in cui una madre può frustare una figlia con lo stendino del bagno, in cui un educatore può entrare in camera di una bambina e stendersi nel suo letto. La notte diventa così metafora del male che è sempre in agguato e della complicità degli altri, improvvisamente ciechi di fronte a ciò che accade. Ma è anche simbolo della nube che la protagonista – come spesso chi è stato vittima di abusi fa – si porta dietro anche quando il pericolo sembra passato. È un’onta difficile da lavare, è il perdono che non si riesce a concedere nemmeno a sé stessi:
Lei sorride, cerca di essere chiara e gli dà risposte che contengono tutto ciò che a lei non è stato dato né fatto ma che sa immaginare; cerca di essere gentile e non gli dice che le risposte che gli sta dando sono quelle di una bambina che non riesce a perdonarsi. (p. 141)
Senzanome è un libro di cui è difficile parlare: bisognerebbe leggerlo molte volte per scandagliare tutti i suoi livelli di lettura e rilevare le molte problematiche sociali che solleva. Mirfet Piccolo riesce a parlare senza retorica di abusi sui minori, e lo fa dopo essersi documentata sui lavori di terapeuti e neuroscienziati che se ne sono occupati. Ma siccome il suo libro non è un manuale, bensì un romanzo, riesce a fare qualcosa che solo la buona letteratura può fare: diffondere empatia e non solo sensibilizzazione, nello spiegare che chi è vittima abuso da piccolo rischia di esserlo anche da adulto, in un modo o nell’altro.
Riesce a parlare del trauma dello stalking, di cosa significhi per una donna vivere nel terrore che quell’uomo-mostro alla fine riesca ad avvicinarsi: e scoprire poi che non c’è un sistema legale che giudicherebbe quell’uomo colpevole, soprattutto se quell’uomo viene da un ambiente illustre.
La donna che ha paura della notte ascolta sino alla fine; ascolta, attenta e rigida, la sua condanna. La prescrizione è la fortezza dei rei, il prestigio la loro arma. (p. 228)
Quando arriva, la speranza di salvezza è bellissima e passa attraverso i libri: «la bambina che vuole leggere», e che scopre nella biblioteca dell’orfanotrofio che con la lettura si può tenere in mondo in mano come una biglia, si aggrapperà all’istruzione per tirarsi fuori dal suo passato, e arrivare sempre più vicina al suo vero sé.
È difficile attaccare i libri e l’uomo-controllore non ci riesce. […] a ogni nuova parola che impara stando lì, a ogni nuovo saggio scritto e consegnato, a ogni poesia letta ad alta voce davanti ai suoi compagni di corso, lei si sente più forte e guadagna uno spazio di vantaggio. (pp. 176-178)
Senzanome è un libro meraviglioso. Dopo averlo letto si capisce come rispondere alla domanda che abbiamo posto all’inizio: forse al Male non si può dare un nome, ma va guardato in faccia e urlato in tutti i modi, anche in modo sconnesso, sgrammaticato. Solo così la notte smetterà di perseguitare, e di far paura.
Michela La Grotteria
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