di Katja Petrowskaja
Adelphi editore, gennaio 2023
«Eppure cominciai presto a soffrire, benché favorita dalla sorte, benché fossi amata e con tanti amici; mi vergognavo di soffrire, ma soffrivo di continuo per quella solitudine ora pungente ora amara, e mi dicevo che era così soltanto perché mi mancava qualcosa. Il vivido sogno di una grande famiglia seduta a una lunga tavola imbandita mi perseguitava con la costanza di un rituale». (p. 26)
Perché nasce un libro? Da cosa nasce il desiderio di raccontare, di fare letteratura? Ogni libro ha un suo perché, degli interrogativi squisitamente personali da cui muove, ma nella grande letteratura, ed è questo il suo fascino, i personalissimi "perché" di uno scrittore danno voce a domande, sentimenti, interrogazioni dei lettori; l’Io dell’artista, il suo universo interiore diviene uno schermo dove trova espressione e rappresentazione il «noi». Katja Petrowskaja è mossa dal desiderio bruciante di andare alla ricerca delle proprie radici, di sfidare l’oblio per ritrovare nei tanti Geller, Heller, Levi e Stern della sua famiglia un senso di appartenenza, un legame, il proprio posto cioè all’interno della narrazione umana.
«Nella mia famiglia c’era di tutto: un contadino, parecchi insegnanti, un agente provocatore, un fisico e un poeta, ma in particolare c’erano leggende». (p.21)
Attraverso queste leggende, questi racconti e i documenti che raccoglie, l’autrice rivive il difficile viaggio verso gli Urali compiuto dalla nonna e dalla madre nel luglio del 1941; ora viaggia nella Vienna del XIX secolo che aveva dato i natali al suo bisnonno materno Ozjel Krezevin; ora ripercorre le vicissitudini della scuola per sordomuti di Kiev dove lavorò Krezevin, scuola che diede asilo agli orfani di famiglie vittime di pogrom; ora si ritrova catapultata nella Mosca del 1932, dove il suo prozio Judas Stern sparò contro un diplomatico tedesco nel vano tentativo di “cambiare il corso della storia”.
I racconti e le leggende famigliari in Katja Petrowskaja divengono letteratura, si fanno letteratura nella sua istanza di alimentare l’immaginazione, di far vivere per interposta persona situazioni ed esistenze al di fuori del raggio d’azione della propria vita.
«Mi risvegliavo sempre in un treno sovraffollato: le persone sdraiate sui sacchi, la mia mamma di sei anni, sua sorella Lida e la mia babuška Rosa, tutte accoccolate in un angolo del carro bestiame, erano in viaggio già da parecchi giorni». (p. 74)
Nel ricchissimo albero genealogico di Katja Petrowskaja emergono, come ritratti incisi nei medaglioni, la figura decisa e delicata al tempo stesso di nonna Rosa, direttrice della Scuola per sordomuti di Kiev e in seguito direttrice di un orfanotrofio negli Urali per i bambini scampati all’assedio di Leningrado; la figura di un nonno di nome Vassilij, un bell’uomo dai «lineamenti distinti e dai tratti affilati» catturato dai tedeschi e deportato a Mauthausen, recluso dapprima in un lager nazista e in seguito in un gulag staliniano, in quanto “colpevole” per i gerarchi sovietici di essere sopravvissuto alla prigionia tedesca. I capitoli più intensi sono dedicati però a Judas Stern, prozio dell’autrice e attentatore sovietico.
L’autrice fa fatica a calzare i panni di questo suo antenato animato da una voglia di rivalsa, da una furia che stenta a comprendere; con un senso d’inquietudine ripercorre il processo, si addentra in quella materia oscura di documenti secretati e vite fatte cadere volutamente nell’oblio per opera dei servizi segreti sovietici.
La ricerca nel passato, nel proprio passato, non è priva di incertezze, di turbamenti che la stessa autrice confessa con candore: «talvolta avevo la sensazione di muovermi attraverso le macerie della storia». La grande Storia, la storia dei lager, dell’Unione Sovietica, di Kiev s’intreccia alla piccola Storia di una famiglia, ma sarebbe più corretto chiamarla discendenza, che testimonia con il suo microcosmo di ansie, paure, speranze e piccole vicende personali il trascorrere di due secoli.
L’attenzione alla lingua e la riflessione linguistica sono il fil rouge che percorre da cima a fondo l’opera. Dai suoi antenati logopedisti l’autrice ha ereditato un legame viscerale con la lingua. La lingua costruisce identità, modella, crea e rende accessibili certe dimensioni, certi reami della memoria, obliterandone altri. Esther è il nome di una bisnonna mai conosciuta dall’autrice; ma il suo nome è incerto perché in famiglia era sempre stata chiamata mamma o «babuška». Riappropriarsi di un nome, seppur incerto, significa riappropriarsi della persona, della memoria.
Ma dovremmo leggere Forse Esther soltanto in occasione della Giornata della Memoria? Vorrei invitare i lettori a non derubricare quest’opera a mera testimonianza dell’odissea di una discendenza ebraica, ma a indagarne il valore letterario, le riflessioni linguistiche ma soprattutto i temi esistenziali che pone: famiglia, solitudine, appartenenza, identità sono solo alcuni dei nodi che Katja Petrowskaja tenta di sciogliere, nodi che si dipanano nelle esistenze di ognuno di noi.
Guendalina Middei
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