di Marie Ottavi
traduzione dal francese di Fabrizio Ascari
L’ippocampo, 2022
pp. 682
€ 25,00 (cartaceo)
Sono belle, sì, le sfilate, ma avete presente il momento in cui l’andirivieni giunge al termine, le modelle e i modelli si fanno da parte e la passerella si libera per fare spazio all’artefice della collezione? Ecco: quel momento lì, in cui la durata di permanenza sulla ribalta è (se non spesso, sempre) inversamente proporzionale all’ego di chi va a occuparla con fare calcolatamente frettoloso, è per certi versi il vero acme, il vero clou, il vero apice del piacere fashion e il suo catartico scioglimento delle righe: il momento in cui chi ha desiderato, inventato, montato e agito il giocattolo quasi si compiace di sconciarlo e ricordarne il debito genitoriale, in un tripudio di clap clap, flash e au revoir. Come a dire: adesso il balocco è vostro, e io, che ne ho già noia, se permettete, vado a generarne di altri e di nuovi e di migliori. Interrogarsi su quando, come e perché gli stilisti e le stiliste e il culto delle rispettive personalità abbiano iniziato a competere con il successo delle loro stesse creazioni è certamente ozioso e dunque affatto originale, ma se un libro come Karl fosse una sfilata e Marie Ottavi, l’autrice, fosse la sua stilista che fa capolino dalle quinte alla fine dell’ultimo rigo, le faremmo invece i complimenti per il modo in cui è riuscita a restituire la vita (anzi le vite) del “tedesco della moda” senza compiacersi mai della sua firma e lasciando tutta la gloria al biografato. Un po’ perché ubi maior, minor cessat, ma soprattutto perché nel raccontare un’esistenza che è già tutta un arabesco – per quanto algido e non privo di asprezze – c’è ben poco da cincischiare in arzigogoli d’autore: basta attenersi ai fatti (premurandosi di essere molto ben informati a riguardo, e lei lo è) e riordinarli appena, consapevoli di come il romanzesco sia già nella loro evidenza. Et voilà: il monumento – quasi 700 pagine eppure nient’altro che una delle sue consistenze possibili – si ergerà quasi da sé, pronto a ricevere il nostro ammiratissimo ave.
Curatrice della rubrica di moda per Libération, Marie Ottavi, giornalista e firma del volume adesso tradotto e pubblicato in Italia da L’ippocampo, aveva un precedente non da poco nell’accingersi a svolgere questo compito, avendo già dato alle stampe per le Edizioni Séguier un libro tutt’altro che neutro come Jacques de Bascher, dandy de l’ombre, dedicato all’uomo a cui lo stilista (Amburgo 1933 – Parigi 2019) dovette la conoscenza delle facce dei dadi dell’amore e dell’amicizia (quella, compromessa senza più ritorno, con il collega Yves Saint Laurent). Ma non di scheletro nell’armadio si trattava, ché anzi in cotanto guardaroba non avrebbero difettato gli abiti più ad hoc per rivestire le ossa di uno degli ultimi grandi viveur del Novecento. Al contrario: scrivere la storia di Karl dopo avere scritto quella di Jacques significava avere le idee ben chiare sul sistema dei personaggi in azione, e dunque sull’importanza del sentimento – dall’arte all’anima, dall’intelligenza all’estetica – in una vicenda lunga svariati decenni e che altrimenti si sarebbe potuta radunare con agio e logica sia sotto le insegne di uno stacanovismo esistenziale assoluto e instancabile, sia nella metafora prismatica di un mondo inteso come teatro, casinò, biblioteca, defilé e ballo in maschera. Per questo ha ben poco senso, in sede di commento, riepilogare anche solo per sommi capi la carriera dell’uomo che, nell’essere sempre e soltanto Karl, fu Chloé e Chanel e Fendi ma anche H&M, firmatario di contratti a vita e stracciatore delle proprie carte, detentore di un ruolo ma anche mimo di tutti gli altri, curioso del grande e del piccolo e mai del medio, ammiratore della vetustà dei secoli passati come della più lombare gioventù, bruno e canuto, palestrato poi grasso poi magro per ossessione vestimentaria, invisibile e onnipresente, burattinaio scaltro e pupazzino consenziente, figlio di una sola ingombrante madre e padre putativo di molti protetti e pupilli, mecenate generoso e benefattore interessato, dotto ipersensibile e conoscitore di ogni sfumatura e risolutore spietato indifferente alle mezze misure. Chi cerca queste informazioni le troverà tutte tra le pagine, restituite (anche con un certo puntiglio) in sette sezioni che già nel simbolismo del numero alludono all’andamento di una specialissima “creazione”, e intervallate da scatti in bianco e nero generosi quanto basta per ricordare che ogni icona equivale a un sembiante; immagini a cui manca la voce, certo, e che se potessero parlare lo farebbero con lo stile oracolare e motteggiante, da vero cultore del linguaggio, del loro soggetto, passato alla storia per una perfidia orale dolce come quei veleni che fluiscono dalle bocche e si insinuano nelle orecchie. Sentenze e spiritosaggini, facezie e cattiverie, scatole divertenti o inquietanti dal molteplice fondo in cui, come al cinema, scorre una versione del Novecento più esclusiva che rara. Ipse dixit: «se si dovesse aggiungere la tristezza di essere comune a quella di essere mortale…». E infatti: Karl è un libro la cui diva canta dell’unicità e dell’ambizione alla vita eterna, tabù di ogni discorso sulla moda che è tale in quanto effimera, desiderio strisciante tra un bozzetto e l’altro come un serpente che si mangi da sé la coda.
Libro a tutti gli effetti colossale (anzi kolossale, per omogeneità con la “k” di Karl), la biografia di Lagerfeld firmata da Marie Ottavi è un’opera che al netto della sua poderosa mole fa l’unica cosa che forse si può fare quando ci si confronta con un personaggio simile: un – e peraltro riuscitissimo – tentativo. Sebbene non si faccia fatica alcuna a immaginare questo volume come prossimo riferimento obbligato per quanti vogliano saperne di più (molto di più) sul “kaiser della moda”, la sensazione che questa storia ci venga raccontata seguendo solo una delle innumerevoli vie percorribili resta forte fino al dominio, e si traduce in due considerazioni solo apparentemente opposte e contrarie: da una parte c’è la conferma del valore di un’impresa così ambiziosa, compiuta con cura meticolosa e dedizione pluriennale, avvalorata da una quantità di fonti dirette e indirette sempre qualitativamente eccellenti; dall’altra la certificazione di un’enormità non traducibile in editio minor. Perpetuo io narrante di se stesso, vivificato in vita da quella che ne era l’attitudine alla performance costante e continua, è come se il biografato riuscisse a resistere a ogni strategia di riduzione. Sembra quasi di immaginarlo mentre approva bonariamente la scelta di compilare, sì, oltre duecento capitoletti, ma a patto di limitarne la lunghezza a un massimo di quattro pagine ciascuno: non solo un modo per venire incontro al lettore e non farlo sentire respinto dalle dimensioni imponenti del tomo, ma anche una metafora di quella che in fin dei conti ne è stata l’ascesa inesorabile, un cammino verso l’alto fatto di passi, passi e ancora passi, senza corse ma anche senza soste. Insomma: letta l’ultima parola, resta forte l’impressione che proprio quella, in fin dei conti, non sia stata ancora detta (e di conseguenza scritta). Altre narrazioni – ovvero altre ricostruzioni, integrazioni, interpolazioni – sono ancora e certamente narrabili, per effetto di un destino che accomuna i Grandi della Moda ai Grandi della Terra. Marie Ottavi ne è senza dubbio consapevole, e dunque a lei vanno le giuste lodi per un’opera che proprio a cotanta grandeur ha saputo rendere omaggio nel migliore dei modi (e dei sistemi proporzionali) possibili.
Cecilia Mariani
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