di Sacha Naspini
Edizioni e/o, 25 gennaio 2023
pp. 204
€ 17,50 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)
Da sempre siamo convinti che gli
atti di coraggio debbano essere strepitosi, forti e impetuosi, ma questo non è sempre
del tutto vero: in alcuni casi, possono essere piccoli, anzi, piccolissimi
gesti, che però fanno la differenza. Questo è uno dei punti chiave del
nuovo e atteso romanzo dello scrittore toscano Sacha Naspini, Villa del seminario.
Ci troviamo in un piccolo borgo
della Maremma toscana in pieno clima bellico, nel 1943. A raccontarci questa
storia tratta da fatti realmente accaduti è René, un ciabattino, un
calzolaio che vive a Le case, frazione della Maremma grossetana. Chiamato da
tutti Settebello (dal numero delle dita che gli sono rimaste dopo un incidente con il
torchio), sembra il classico tipo solitario: sempre nella sua bottega a
lavorare e a riparare le scarpe, a guardare e schivare tutti con diffidenza,
tanto da avere pochissime amicizie. La confidenza verso i suoi concittadini poi
è quasi nulla, nonostante conosca alcuni di loro fin dall’infanzia. L’unica
eccezione è Anna, la donna di cui è segretamente innamorato da una vita intera.
Amici fin da bambini e innamorati forse da quel tempo: entrambi non hanno mai
trovato il coraggio di esprimere il loro amore, restando l’uno accanto
all’altra, ma mai insieme.
Non c’erano più le serate al tavolo di cucina con un po’ di vino, ma quel suo modo di parlare ad Anna era forse anche più bello. Lo faceva nel silenzio, le attese, le notti senza fine. La rabbia trapassava le pareti: la stringeva così, nell’abbraccio che non aveva mai avuto il coraggio di darle. E lei stringeva lui. (p. 99)
Nel resto della Toscana la
guerra, con i suoi morti e feriti, imperversa, ma a Le Case sembra non essere
ancora arrivata. Certo, la fame si fa sentire e i lussi ormai sono solo un
lontano ricordo, ma i racconti che gli abitanti hanno sentito lì non sono ancora
arrivati. La Storia non perdona e nemmeno loro possono restare fuori da quegli
anni così cupi; la realtà, quindi, li colpirà duramente quando il Vescovo di
Grosseto, Monsignor Galeazzi, con regolare contratto, affitta la sua dimora
estiva ai fascisti, che creeranno lì un campo di smistamento per gli ebrei della
zona.
Fino a qualche giorno prima nessuno aveva mai dedicato davvero un pensiero agli appartamenti del vescovo, dove da sempre le santissime membra andavano a cercare ristoro dall’afa che d’estate strangolava Grosseto. […] Ora però quelle stanze tuonavano nelle orecchie di tutti con un altro peso. Allora si faceva finta di niente, anche il respiro d’un tratto inceppava nel dare il buongiorno. (p. 12)
Questa, congiunta alla morte del
figlio fucilato, sarà la molla per Anna: non può accettare anche questo. Logorata
dal dolore della perdita, troverà un nuovo orizzonte: combattere, resistere, «darsi
uno scopo»
(p. 23), entrare nella Resistenza.
È da questo momento che inizierà
la ribellione di René; per proteggere l’amica, pian piano compirà gesti per lui
inimmaginabili, azioni che non avrebbe mai intrapreso. Da essere solo uno
spettatore, entrerà a far parte di quei protagonisti che hanno combattuto e hanno
sacrificato la loro vita per la nostra libertà. Con il nome di battaglia di Maciste, sfiderà
il regime ed è proprio qui che il ciabattino capirà finalmente che può farlo
anche lui: può combattere e non arrendersi. Non saranno grandi e clamorose, ma piccole azioni, quasi disattenzioni che sapranno però fare la differenza,
come riparare malamente le scarpe ai fascisti così da farli trovare
in difficoltà nelle azioni belliche, o ancora, lasciare aperte le
celle delle prigioni per dare una possibilità ai dissidenti.
Villa del seminario di Sacha Naspini è in primis una sfida alla consapevolezza perché i fatti che evoca,
attraverso la storia del ciabattino, sono stati per lungo tempo dimenticati o
ignorati, tanto che nessuno, nemmeno forse gli abitanti dei paesi limitrofi, ne
era a conoscenza. E poi è sicuramente un elogio alla memoria: evocando fatti
realmente accaduti, attraverso una storia di fantasia, Sacha Naspini ha donato
a questo racconto un carattere universale. La prosa dell’autore fa poi il
resto: concisa e schietta (come ci ha abituato del resto in altri romanzi,
penso ad esempio a Nives, recensito qui), centra subito il punto di vista nel tratteggiare sia personaggi sia ambienti.
Servono così davvero poche parole per trasportare il lettore tra i vicoli di
quel borgo ad accompagnare il calzolaio mentre si reca dalla sua amica.
Villa del seminario è un romanzo storico che riporta
alla luce un fatto rimasto nascosto per troppo tempo ed è questo il merito
dell’autore: quello di aver dato voce alle centinaia di famiglie che furono
rinchiuse dentro la Villa del Vescovo e poi trasportate nei campi di
concentramento. Sì, perché la storia di Renè è la storia di ognuno di loro. E sapere
questo, dopo tanti anni (quasi ottanta), non può non far sorgere una domanda:
perché continuiamo a dimenticare e ignorare?
La camminata proseguiva fino alla villa del vescovo. Il grande giardino era ormai mangiato dai roveti e dall’erba alta. […] Ma prima di tutto c’era da girare un muro. Non sapeva quando lo avevano costruito, a questa domanda c’erano due soluzioni: […] nel ’43 per non far vedere dalla strada cosa stava accadendo nella casa del monsignore; o dopo, quanto tutto era finito, per dimenticarlo. (p. 183)
Giada Marzocchi