Uscito a gennaio 2022, Ero un bullo di Andrea Franzoso non ha ancora smesso di far parlare di sé. Da poco giunto alla decima ristampa, il 5 dicembre ha vinto il “Premio Minerva Letteratura per ragazzi”, votato da una giuria costituita da studenti della scuola secondaria inferiore. C’è dunque da chiedersi quali siano i motivi di questa persistenza, e del successo che l’accompagna. Nel leggere il volume, mi sono data alcune risposte: innanzitutto il fatto che si tratti di una storia vera, che il “cattivo ragazzo” Daniel Zaccaro sia una figura in cui forse non ci si identifica, ma che certo risulta plausibile, comprensibile, radicata nel contesto in cui via via si trova e in un percorso di crescita ben delineato, anche se non rettilineo. In secondo luogo, lo stile piano, accessibile dell’autore, che non intimidisce ed è alla portata dei lettori fragili quanto di quelli esperti, che vi cercheranno e troveranno un diverso appagamento; il racconto risulta concreto, incentrato sulla narrazione degli eventi, ma senza trascurare la chiarificazione delle cause, l’esplorazione delle conseguenze.
Daniel è un giovane problematico, spesso sfidante, inizialmente
poco empatico e decisamente autocentrato, quindi la prima reazione che suscita
non è di simpatia, né tantomeno di immedesimazione. Al contempo, però, i temi
dello sguardo che salva, della voglia di cambiare e della possibilità di
redenzione e riscatto, rimangono universali, e inevitabilmente finiscono
per coinvolgere sul piano emotivo chi si trovi ad affrontare il testo. Ero un bullo è dunque un romanzo di
formazione che offre molti stimoli: per trovare conferma delle mie
impressioni, ho voluto approfittare della disponibilità di Andrea Franzoso, che
si è prestato senza reticenze a tutte le mie domande.
Nella tua narrazione
cerchi, pur senza mai ricorrere a giustificazioni facili, di mettere in luce la
relazione tra il contesto in cui Daniel cresce e la violenza che ne deriva e a
cui si abbandona. Quali sono i fattori più condizionanti?
Un ragazzo può crescere in una famiglia disfunzionale e in un contesto degradato, ma non è detto che diventi per forza un delinquente. La sorella di Daniel, pur essendo nata e cresciuta nello stesso ambiente, segue un percorso del tutto diverso da quello del fratello. Certo: è donna. E le donne – a dirlo sono i numeri – sono meno inclini a commettere reati: in carcere il 95% dei detenuti sono maschi. Sono tanti i fattori che concorrono a produrre agiti violenti. Comportamenti antisociali possono essere presenti anche in adolescenti di “buona famiglia”.
A compromettere la crescita di Daniel, è la mancanza di amore e di rispetto fra i suoi genitori, la loro fragilità e vulnerabilità, la violenza – verbale e fisica – del padre-padrone e le sue continue svalutazioni («Non vali niente», «Sei uno zero»), la povertà culturale, quella economica, l’assenza di adulti e istituzioni affidabili. Daniel, inoltre, soffre tremendamente il peso del giudizio: le aspettative esagerate del padre, soprattutto quando a dieci anni gioca fra i pulcini dell’Inter; le umiliazioni di qualche insegnante; gli sguardi delle ragazze e quelli dei compagni; l’immagine da difendere nel quartiere. Nella società della performance e del successo a ogni costo – individualista, spietata e competitiva –, che ha per idoli il denaro e la notorietà e non ammette il fallimento, Daniel sviluppa un forte senso di inadeguatezza, che presto si trasforma in rabbia, risentimento, spirito di rivalsa. Ed ecco che invidia i ragazzi del centro, vestiti meglio e apparentemente felici. Decide quindi di prendersi con la forza ciò che non può permettersi: ruba biciclette e motorini, strappa cellulari e portafogli ai coetanei. Per farsi rispettare, diventa un prepotente. Provoca risse, organizza pestaggi. Coi soldi della prima rapina in banca corre al centro commerciale a comprare un giubbotto firmato e le Nike Silver, conformandosi allo stile più in voga nella sua zona. La povertà lessicale aggrava i suoi comportamenti violenti. Daniel non trova le parole per descrivere il proprio malessere e immaginare un futuro davanti a sé.
Tu sei molto impegnato
nelle attività per le scuole, nel contesto delle progettazioni di educazione
civica. Cosa ritieni che possa dare la narrativa a questi percorsi? Che modelli
può o dovrebbe offrire?
Da sempre le società umane hanno trasmesso i propri valori attraverso miti, fiabe, saghe, leggende, parabole, storie, racconti... Non si può educare ai valori di cittadinanza con la teoria, i predicozzi o le Dichiarazioni Universali. È necessario che l’intelligenza scenda nel cuore, e talvolta anche nella pancia. Bisogna sviluppare l’empatia, e applicare quella famosa tecnica di scrittura – Show, don’t tell, Mostra, non descrivere – anche all’insegnamento dell’educazione civica. Un solo buon esempio vale più di mille discorsi. L’educazione civica dovrebbe essere insegnata soprattutto attraverso il teatro e i classici della letteratura. Ai ragazzi farei mettere in scena le grandi tragedie greche, come l’Antigone di Sofocle. L’attenzione e la curiosità di adolescenti e preadolescenti sono catturate anche dalle storie vere, dal racconto della vita di personaggi che percepiscono come autentici. Ma è necessario che di fronte a sé trovino educatori appassionati.
Un ragazzo può crescere in una famiglia disfunzionale e in un contesto degradato, ma non è detto che diventi per forza un delinquente. La sorella di Daniel, pur essendo nata e cresciuta nello stesso ambiente, segue un percorso del tutto diverso da quello del fratello. Certo: è donna. E le donne – a dirlo sono i numeri – sono meno inclini a commettere reati: in carcere il 95% dei detenuti sono maschi. Sono tanti i fattori che concorrono a produrre agiti violenti. Comportamenti antisociali possono essere presenti anche in adolescenti di “buona famiglia”.
A compromettere la crescita di Daniel, è la mancanza di amore e di rispetto fra i suoi genitori, la loro fragilità e vulnerabilità, la violenza – verbale e fisica – del padre-padrone e le sue continue svalutazioni («Non vali niente», «Sei uno zero»), la povertà culturale, quella economica, l’assenza di adulti e istituzioni affidabili. Daniel, inoltre, soffre tremendamente il peso del giudizio: le aspettative esagerate del padre, soprattutto quando a dieci anni gioca fra i pulcini dell’Inter; le umiliazioni di qualche insegnante; gli sguardi delle ragazze e quelli dei compagni; l’immagine da difendere nel quartiere. Nella società della performance e del successo a ogni costo – individualista, spietata e competitiva –, che ha per idoli il denaro e la notorietà e non ammette il fallimento, Daniel sviluppa un forte senso di inadeguatezza, che presto si trasforma in rabbia, risentimento, spirito di rivalsa. Ed ecco che invidia i ragazzi del centro, vestiti meglio e apparentemente felici. Decide quindi di prendersi con la forza ciò che non può permettersi: ruba biciclette e motorini, strappa cellulari e portafogli ai coetanei. Per farsi rispettare, diventa un prepotente. Provoca risse, organizza pestaggi. Coi soldi della prima rapina in banca corre al centro commerciale a comprare un giubbotto firmato e le Nike Silver, conformandosi allo stile più in voga nella sua zona. La povertà lessicale aggrava i suoi comportamenti violenti. Daniel non trova le parole per descrivere il proprio malessere e immaginare un futuro davanti a sé.
Da sempre le società umane hanno trasmesso i propri valori attraverso miti, fiabe, saghe, leggende, parabole, storie, racconti... Non si può educare ai valori di cittadinanza con la teoria, i predicozzi o le Dichiarazioni Universali. È necessario che l’intelligenza scenda nel cuore, e talvolta anche nella pancia. Bisogna sviluppare l’empatia, e applicare quella famosa tecnica di scrittura – Show, don’t tell, Mostra, non descrivere – anche all’insegnamento dell’educazione civica. Un solo buon esempio vale più di mille discorsi. L’educazione civica dovrebbe essere insegnata soprattutto attraverso il teatro e i classici della letteratura. Ai ragazzi farei mettere in scena le grandi tragedie greche, come l’Antigone di Sofocle. L’attenzione e la curiosità di adolescenti e preadolescenti sono catturate anche dalle storie vere, dal racconto della vita di personaggi che percepiscono come autentici. Ma è necessario che di fronte a sé trovino educatori appassionati.
Ero un bullo. La vera storia di Daniel Zaccaro di Andrea Franzoso DeAgostini, 2022 pp. 256 € 13,90 (cartaceo) € 6,99 (ebook) Vedi il libro su Amazon |
Il percorso di riscatto di Daniel non è lineare, uniforme, ma pieno di scarti e scivoloni. Uno dei momenti di svolta è sicuramente la possibilità di conoscere don Claudio, cappellano del carcere minorile e fondatore della Comunità Kairòs. Quanto sono importanti in un cammino di formazione gli incontri e gli sguardi che salvano?
Danilo Dolci scrive che «ciascuno cresce solo se sognato». Daniel ha incontrato una comunità educante che ha saputo andare oltre l’etichetta di «delinquente», di «ragazzo perduto e irrecuperabile» che si portava addosso, intravedendo in lui delle risorse e un talento su cui far leva per costruire – insieme – un futuro diverso da quello che sembrava già scritto. Nessuno si salva da solo. Ma lo sguardo dell’altro, la sua mano tesa, non bastano: occorre saperli vedere. Qui, naturalmente, entrano in gioco la libertà, l’intelligenza, la volontà e la storia personale di ciascuno. C’è una massima che dice: «Quando il discepolo è pronto, appare il maestro». Daniel ha avuto paura di diventare un avanzo di galera ed è stato in grado di riconoscere chi avrebbe potuto aiutarlo. Durante il nostro primo colloquio, li ha definiti «adulti credibili»: un anziano brigadiere della polizia penitenziaria («Un adulto che si assume le responsabilità, non il classico paraculo»); il cappellano del Beccaria, don Claudio Burgio, che lo ha poi accolto nella sua comunità; Fiorella, una professoressa di lettere in pensione che faceva la volontaria in carcere e che ha incoraggiato Daniel a riprendere gli studi («A salvarti non saranno i soldi, ma il sapere»). E poi: l’avvocato, il magistrato, educatrici, psicologhe, insegnanti... C’erano tutti anche prima, ma Daniel non era ancora pronto a cogliere il Kairòs.
Quando accoglie i suoi ragazzi cattivi (dal latino captivus, prigioniero; giovani e adolescenti prigionieri della loro rabbia, di una storia sbagliata, di una famiglia in frantumi, di un contesto tossico e svalutante, dell’ignoranza...) don Claudio fa epoché, cioè sospende il giudizio. Kairòs non è una comunità normativa, i ragazzi imparano a lasciarsi educare dalla quotidianità, a riflettere in dialogo aperto e franco con gli educatori. Nessuno deve sentirsi obbligato a fare qualcosa contro il proprio volere, altrimenti quell’azione risulterebbe priva di valore. La vita in comunità non è scandita soltanto dal Chronos, la successione indistinta di secondi, minuti, ore, giorni, settimane, mesi, anni, ma è costellata di Kairòs, cioè di occasioni favorevoli, di momenti opportuni: è un tempo di qualità, non di quantità. Il primo Kairòs Daniel lo coglie mentre è al Beccaria. Ha picchiato un detenuto e si aspetta una punizione, in base alla regola azione-reazione praticata dalla sua educatrice, Angela. Ma questa volta lei lo lascia di sasso: «Mi sono stufata di punirti, Daniel, non serve a niente. Stavolta ti premio. Da domani lavorerai con il brigadiere Stara». Il brigadiere Stara si occupa dei lavori di ordinaria manutenzione e di altri servizi indispensabili per il buon funzionamento del carcere: per fare ciò, ha organizzato un gruppo di detenuti. Ne fanno parte i più meritevoli. Stara è una persona solida, pacata, coerente, impossibile da manipolare. Educa i ragazzi al lavoro ben fatto. Daniel gli si affeziona, lo osserva con curiosità, ne ha rispetto. Altri kairòs sono rappresentati dall’incontro con don Claudio, con Fiorella, con l’avvocato Robert Ranieli... In tutti questi casi, ci sono degli adulti che sanno guardare Daniel con occhi nuovi, gli danno fiducia, se ne prendono cura e lo incoraggiano. Qualche mese prima del termine della sua prima pena, decide di ascoltare i consigli dell’educatrice e del suo avvocato, chiede al Tribunale per i Minori di poter affrontare subito gli altri processi in corso, di anticipare le udienze, per poter chiudere una volta per tutte i conti col passato: giungono le altre condanne e, a seguire, il cumulo delle pene. Potrebbe trascorrere un’estate fuori dal carcere, ma capisce di non essere ancora pronto a uscire: preferisce non interrompere il percorso di rieducazione, proprio quando le cose stanno andando per il verso giusto.
Quali strutture (istituzionali, sociali, familiari) può offrire la società
di oggi per agevolare un percorso di recupero di vite apparentemente segnate
dall’errore? Ce ne sono alcune più efficaci di altre? Tra queste si
annoverano anche percorsi di educazione alla legalità?
A fare la differenza non sono le istituzioni, ma le persone che ci sono dentro. Come a scuola: ci sono insegnanti appassionati, che interpretano il proprio lavoro come una missione... e ce ne sono altri svogliati, che creano danni enormi, rendendo odiosa la scuola agli occhi degli studenti. E poi c’è la burocrazia, che rende tutto più complicato e assurdo. Sembra fatta apposta per deresponsabilizzare e opprimere: toglie energie e scoraggia lo spirito di iniziativa.
L’istituzione più importante di tutte è la scuola. Certo, dovrebbe essere ripensata da cima a fondo, restare aperta dalla mattina alla sera e costituire il cuore di ogni comunità.
Percorsi di recupero di ragazzi “rotti” sono portati avanti da molte associazioni attive nel sociale. Sarebbe bello che le diverse organizzazioni, pubbliche o private, riuscissero a collaborare di più. Spesso invece ognuna tende un po’ a far da sé.
La vicenda di Daniel ha avuto un esito positivo anche perché i magistrati, l’avvocato, il cappellano, gli educatori, le psicologhe, la direzione del carcere, hanno saputo fare squadra e dialogare tra di loro.
Quanto alla parola “legalità”, è troppo abusata, preferirei sostituirla con “integrità”. L’etica non sempre coincide con le leggi dello Stato.
A fare la differenza non sono le istituzioni, ma le persone che ci sono dentro. Come a scuola: ci sono insegnanti appassionati, che interpretano il proprio lavoro come una missione... e ce ne sono altri svogliati, che creano danni enormi, rendendo odiosa la scuola agli occhi degli studenti. E poi c’è la burocrazia, che rende tutto più complicato e assurdo. Sembra fatta apposta per deresponsabilizzare e opprimere: toglie energie e scoraggia lo spirito di iniziativa.
L’istituzione più importante di tutte è la scuola. Certo, dovrebbe essere ripensata da cima a fondo, restare aperta dalla mattina alla sera e costituire il cuore di ogni comunità.
Percorsi di recupero di ragazzi “rotti” sono portati avanti da molte associazioni attive nel sociale. Sarebbe bello che le diverse organizzazioni, pubbliche o private, riuscissero a collaborare di più. Spesso invece ognuna tende un po’ a far da sé.
La vicenda di Daniel ha avuto un esito positivo anche perché i magistrati, l’avvocato, il cappellano, gli educatori, le psicologhe, la direzione del carcere, hanno saputo fare squadra e dialogare tra di loro.
Quanto alla parola “legalità”, è troppo abusata, preferirei sostituirla con “integrità”. L’etica non sempre coincide con le leggi dello Stato.
La struttura del tuo romanzo è circolare, quasi a voler dire l’importante di tornare sui propri passi, di fare i conti con il proprio passato per poter poi andare avanti. Cos’ha il Daniel diventato grande in più rispetto a quando era, effettivamente, un bullo?
Rispetto al Daniel di ieri, il Daniel di oggi ha riconosciuto l’errore e il fallimento. Mi torna in mente un verso di Thomas S. Eliot: «Alla fine di tutto il nostro andare ritorneremo al punto dal quale eravamo partiti e lo conosceremo per la prima volta». Il Daniel di oggi ha le parole per raccontare la propria storia, per dare senso e significato al suo cammino tempestoso. Ha saputo dare voce alla sofferenza e alla rabbia, alle ferite (anche a quelle che sanguinano ancora: penso soprattutto al rapporto col padre) e alle sue cadute. Ha studiato, si è laureato, ha lavorato sodo su sé stesso, con il supporto di educatori e psicologhe. Ha dato un nome ai propri demoni interiori, si è liberato dal loro giogo. Oggi è più forte perché conosce la sua debolezza.
Daniel racconta spesso un episodio che ha avuto per protagonista un suo ex compagno di cella, che mentre era in carcere ha studiato e si è laureato alla Bocconi. Durante un colloquio di lavoro salta fuori che è stato in carcere per un grave reato. «Spiegami perché dovrei assumere uno come te», gli domanda uno dei selezionatori. «Perché ho sbagliato, ma ho imparato dai miei errori. So cosa significa rialzarsi, dopo essere caduto così in basso.»
C’è qualche lettura a tuo avviso imprescindibile per un giovane in formazione (e/o per i suoi educatori)?
Partirei dalle basi: dai miti greci e dai grandi classici della letteratura per l’infanzia, come Pinocchio, Alice nel Paese delle Meraviglie, Pippi Calzelunghe... Quand’ero alle medie mi è piaciuta molto La storia infinita di Michael Ende. Inoltre, a quell’epoca, grazie alla prof di italiano, ho approcciato le chansons de geste del ciclo carolingio e le leggende del ciclo bretone. Artù e i Cavalieri della Tavola Rotonda mi hanno regalato emozioni indescrivibili, influenzando il mio immaginario. Credo che il mio amore per il Medioevo nasca da lì. Assolutamente da leggere anche Il Signore degli Anelli di Tolkien. Un laboratorio di educazione civica lo incomincerei dalla lettura de L’uomo che piantava gli alberi di Jean Giono. E ci inserirei La fattoria degli animali e 1984 di Orwell. Un’altra lettura imprescindibile è Moby Dick. E ovviamente, in ordine sparso (e incompleto): Pirandello, Primo Levi, Cassola, Buzzati, Rigoni Stern... Per i più grandi: Dostoevskij e i russi in generale; le storie zen, i racconti chassidici e gli apoftegmi dei Padri del Deserto; Walden di Thoreau, ma anche il Diario di Etty Hillesum e l’avventura polare dell’Endurance e del suo straordinario comandante Shackleton.
A cura di Carolina Pernigo
Le immagini che corredano l'intervista sono state gentilmente fornite dall'autore.
Social Network