di Alessandro De Roma
Fandango Libri, gennaio 2023
pp. 560
€ 20 (cartaceo)
Se la morte è un viaggio, e ancora un'avventura piena di luce, come dicevano per consolarmi, io non avevo paura di affrontarla. Anzi, non vedevo l'ora. (p. 28)
Quando apriamo il nuovo romanzo di Alessandro De Roma, tratteniamo immediatamente il respiro: è proprio vero che il protagonista, il piccolo Pietro Stefano Mele, sta per buttarsi dal balcone della sua casa di Cagliari? Ed è proprio vero che, a parte un grande spavento per i presenti in piazza Yenne e a qualche contusione, a lui non è successo niente? "Niente", in realtà, è riduttivo per un undicenne che ha da pochissimo perso la madre in un drammatico incidente, durante quella che avrebbe dovuto rappresentare una gita spensierata, apoteosi di un'infanzia felice, nel paradiso di Cala Goloritzé. Aggiungiamo al trauma profondissimo il fatto che il padre, Sebastiano, appare totalmente fuori di sé e non fa che tormentare il figlio: ora gli attribuisce la colpa di quanto accaduto, ricordandogli ripetutamente e in modo ben poco convinto che "non è stata colpa sua"; ora lo abbraccia spasmodicamente; ora lo percuote. Tutto, persino le abitudini sane di un pasto caldo a orari prestabiliti, è stato spazzato via dalla morte: non c'è regola in quell'appartamento, né speranza che il padre decida di provare a ricostruirsi per aiutare anche il figlio a superare il lutto. Anzi, la sua soluzione, dopo il tentativo di suicidio del figlio, è quella di affidare Pietro Stefano alla nonna, Mariangela Sircana, mentre lui viaggerà per il mondo, alla ricerca di sé.
Quella che inizialmente può sembrarci una scelta scriteriata - tanto più che Pietro Stefano non ha mai nemmeno visto sua nonna! -, appare sensata quando conosciamo la donna: Mariangela Sircana è un modello di tenacia e di forza interiore; vive da sola dalla morte del marito, in una villa che ha subito e sta subendo il trascorrere del tempo, ma che è enorme e ha un parco che è ben più di un giardino o di un orto. Lì, ai margini del piccolo borgo di San Leonardo de Siete Fuentes, Pietro Stefano può provare a ritrovare un po' di pace. Prova a farlo scrivendo sul suo quaderno lunghe lettere simili a pagine di diario alla madre scomparsa, ma anche frequentando Piras, il bravo giardiniere che, tra una citazione latina e l'altra, gli insegna a rispettare i cicli della natura e a provare piccole grandi soddisfazioni per quanto la terra dona. Nonna Sircana, silenziosa e instancabile, sempre elegante pur zappando la terra o usando una motosega, è una presenza molto positiva, un punto fisso in un universo che per Pietro Stefano si è disgregato da tempo. Il bene, per lei, passa soprattutto attraverso il cibo o piccole attenzioni silenziose, più che attraverso abbracci o manifestazioni urlate.
A movimentare le sue giornate, ci si mettono poi i vicini di casa, la stranissima famiglia Campus: benché i ragazzi e la moglie sembrino uniti attorno al capofamiglia, l'affascinante e carismatico dottor Campus, nonna Sircana non vede di buon occhio che il nipote prenda a frequentare i figli. E dire che specialmente Luca e Laura mostrano grande interesse verso Pietro Stefano! Più isolato è Alberto, ragazzo riservatissimo, dagli interessi poco comuni. Non ci vuole comunque molto tempo perché Pietro Stefano colga alcuni comportamenti inspiegabili in quella famiglia che inizialmente gli sembrava un modello ormai inarrivabile per lui. Questo, tuttavia, non gli impedirà di continuare a sognare di restare a San Leonardo, con i suoi nuovi amici, ben lontano da quel padre che è sparito, la cui assenza pesa immensamente, perché persino le sue rare cartoline suonano come una minaccia:
Avevo undici anni e la mia vita dipendeva in fondo ancora tutta dalle scelte di mio padre: se lui avesse deciso di tornare e di portarmi via, cosa mai avrei potuto fare per impedirglielo?Era mio padre. Il mio re e padrone. E, per quanto fosse un allocco, era un allocco che abitava a Parigi o a Buenos Aires. (p. 148)
E il ricordo della madre, dal canto suo, è una presenza che stringe forte alla gola:
Non era più davvero mia madre, in effetti: era la mia prigioniera, la mia schiava e la mia divinità, seppur priva di qualunque potere. (p. 69)
Sono queste le vicende che danno avvio al nuovo e impegnativo romanzo di formazione di Alessandro De Roma, Grande terra sommersa. Oltre cinquecento pagine ci permettono, infatti, di seguire Pietro Stefano nella sua crescita disordinata, piena di altalene umorali e sentimentali, senza una direzione ben chiara. A muoverlo sono soprattutto gli istinti, quando non si tratta del lasciarsi trasportare da ciò che gli accade attorno. Se il trauma della morte della madre è solo il primo di una lunga serie, seguendo la sua crescita ci appare chiaro come il sommerso sia davvero un mondo intero dentro Pietro Stefano, sensibile e profondamente incline a lasciarsi sconfortare dalla vita. Non c'è felicità che nasca direttamente in lui; la sua potente autoanalisi è semmai alla base della perpetua rimasticazione dell'amarezza provata per la perdita. Anche voler bene è un'impresa, perché negli anni della sua adolescenza Pietro Stefano vive esperienze al limite, che non intendo citare apertamente per non fare colpevoli anticipazioni. Vi basti pensare al connubio di alcol, una brutale iniziazione sessuale, nuove perdite, un continuo non trovare radici, perché i suoi capisaldi vengono pian piano a mancargli sotto i piedi. Il tutto può essere ben descritto da un'osservazione del protagonista:
C'è gente che sembra nata per essere felice, nonostante tutte le disgrazie che gli capitano nella vita. Altri possono solo assorbire un po' della felicità che gli ruota attorno, ma sempre solo con immensa malinconia. (p. 379)
E ancora:
Aver conosciuto la felicità piena e non poterla mai più avere, quella era la mia condanna. (p. 417)
Su e giù, dentro e fuori dalla Sardegna, seguiamo così Pietro Stefano in una formazione che stenta a compiersi, piena com'è di fantasmi, di segreti, di sensi di colpa accumulati, spesso senza ragione. E se alcune delle esperienze al limite da lui vissute sembreranno un po' inverosimili e ci chiederanno un po' di pazienza, persistiamo e andiamo avanti: l'autore non tradirà il patto narrativo che ha stretto con noi nella prima e splendida parte dell'opera. Ci chiede piuttosto di fidarci, anche quando la storia prende vie sghembe e decisamente tortuose, fantasiose al limite della credibilità. E solo pazientando vedremo così se per Pietro Stefano sarà possibile una svolta, una pacificazione o se la sua resterà una formazione sospesa, contrastata e irrisolta.
GMGhioni
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