Comica finale. Ovvero non più soli
di Kurt Vonnegut
Bompiani, 2022
Titolo originale: Slapstick
Traduzione di Vincenzo Mantovani
pp. 217
€ 13,00 (cartaceo)
€ 7,99 (ebook)
Quattro
sono le grandi invenzioni americane, si scopre leggendo questo libro: il
regolamento per la corretta gestione delle assemblee, la Carta dei Diritti, i principi
degli Alcolisti Anonimi e il progetto
rivoluzionario ideato dai protagonisti di Comica finale, Wilbur Giunchiglia-11 Swain, ex Presidente degli
Stati Uniti, e sua sorella Eliza. All’interno del romanzo, un’opera rivalutata
dall’autore stesso in tarda età e mai del tutto dai recensori (“aver dato una D a questo libro assolutamente
magnifico è stato un atto di codardia. Sono passato dalla parte del nemico, i
critici”, p. 228), pur adottando le forme e i temi della fantapolitica, Vonnegut mette molto di
sé e della sua visione del mondo. Ce lo dice nel Prologo, dove osserva che “questa è la cosa più vicina a
un’autobiografia che arriverò mai a scrivere” (p. 11), ma in maniera ancora
più ampia nella Nota all’edizione italiana, che si configura come una dichiarazione d’intenti a posteriori:
La mia preparazione è poco adatta a una carriera letteraria. Non ho mai imparato cosa si dovrebbe mettere in un romanzo e cosa si dovrebbe lasciar fuori, e quali dovrebbero essere il tono e la struttura, e via dicendo. Loro [i critici] lo sanno, io no. Così, nella mia ignoranza, ho rovinato questo e parecchi altri romanzi con quella che per loro è mancanza di serietà; e ho fatto cattivo uso della fiction per diffondere le mie strampalate idee sugli Stati Uniti d’America. (p. 228)
Ecco quindi che si spiega la ragione della dedica dell’opera a Stanlio e Ollio, scelti come modello
per l’andamento discontinuo delle
loro vicissitudini, per la natura
esagerata, grottesca, di molte delle loro avventure, ma soprattutto perché
“non hanno mai mancato di venire a patti
in buona fede col destino” (p. 11), quale che fosse la situazione che si
trovavano ad affrontare. Il titolo originale, del resto, rimanda a un tempo alla
bandella di legno utilizzata nelle gag del cinema muto dagli attori per
scambiarsi sberle e percosse (lo slapstick,
appunto), ma anche al sottogenere cinematografico specifico fondato, come
riporta l’Enciclopedia Treccani, su “una comicità elementare che sfrutta il
linguaggio del corpo” e un umorismo semplice, grossolano, immediato.
Chi
legge Comica finale si troverà di
fronte un romanzo molto meno organico
rispetto ad altri di Vonnegut. A questo si deve, forse, la difficoltà nella
ricezione. La trattazione rapida,
che procede spesso per scene
giustapposte e con frequenti salti
temporali, fa sì che non di tutti i temi toccati si comprenda subito
l’utilità ai fini narrativi. È questo il caso della, inizialmente solo
accennata e poi progressivamente più rilevante, questione trasversale dei
rapporti con la Cina, massimamente orientata a trionfare nella corsa tecnologica,
impegnata in particolare nel tentativo di miniaturizzare i suoi abitanti per
ridurre il consumo di alimenti su scala nazionale e globale e nella conquista
dello Spazio. Quella che sembra inizialmente solo una trovata parodica per
irridere un certo complesso dell’America degli anni ‘70, si rivelerà poi una
importante (pur se iperbolica) chiave di volta per lo sviluppo della trama.
Al
centro dell’intreccio, del resto, c’è sempre il contrasto tra il sogno utopistico di un “benessere per tutta l’umanità” (p. 149), coltivato anche da altri
grandi idealisti vonnegutiani come Eliot Rosewater, e le distorsioni di un sistema politico, economico e sociale basato su
personalismi, avidità e ipocrisia. La prospettiva è quella postuma di un
sistema statunitense andato alla deriva, ritornato forzosamente allo stato di
natura, dove i pochi sopravvissuti alla pestilenza (la “Morte Verde”)
sull’Isola della Morte, la vecchia Manhattan, vivono di caccia e di raccolta, o
prosperano sfruttando il lavoro degli schiavi. Il narratore, Wilbur Giunchiglia-11
Swain, è un uomo mostruoso, deforme,
in cui si annida quel tanto di follia (o
di lungimiranza) da aver capito che il
vero male dell’umanità è la solitudine, e che solo la creazione di grandi famiglie artificiali, assolutamente
democratiche per composizione e in cui ciascuno sia spinto a trattare il suo
prossimo come un fratello o al massimo un cugino, potrebbe salvare dalla
bestialità e impedire la disgregazione sociale. Il motto che lo ha portato a
vincere le elezioni è “Non più soli”
e, nonostante alcune resistenze, fa presto breccia nelle masse dei diseredati
che affollano le strade del continente:
“Parlai della solitudine in America. Era proprio l’argomento che ci voleva per vincere, e questo fu un colpo di fortuna. Era anche l’unico argomento che avessi.” (p. 152)
È interessante notare come, per Vonnegut, a far precipitare gli Stati Uniti nel caos non sia il progetto, ma la sua
applicazione solo parziale: mentre pericolose oscillazioni della forza di
gravità mettono, letteralmente, in ginocchio gli abitanti e terribili morbi si
diffondono e sterminano i più fragili; mentre la forma repubblicana soccombe
alle pretese di re e duchi sorti in ogni dove e a violentissime guerre civili;
mentre voci inquietanti arrivano dall’aldilà a spegnere ogni illusione di una consolazione post-mortem e ci si
interroga su quale ruolo abbia la Cina
in questo precipizio (tanto che alcune pagine risultano di una caustica,
disarmante attualità), gli uomini provano a resistere proprio grazie ai nuovi
legami famigliari. La famiglia, del resto, vissuta da Wilbur in modo assolutizzante,
è il cuore pulsante del libro: centrale, tanto quando il progetto politico, è
il rapporto viscerale, quasi incestuoso,
con la sorella gemella Eliza, mostruosa quanto se non più di lui, eppure
elemento complementare a livello neurale (“la
felicità consisteva […] nel diventare grandi come le due metà specializzate di
un singolo cervello”, p. 51). Non
c’è forza nella separazione, solo l’unione crea interferenze creative,
consente di liberare il genio e l’ispirazione.
Basta
leggere le prime pagine del Prologo per capire che, per narrare del rapporto
tra Wilbur ed Eliza, Vonnegut si ispira a quello con la sorella Alice,
gigantessa buona e amatissima, morta troppo presto, ma portatrice di quella
virtù tanto importante per Kurt, la capacità di venire a patti in buona fede
col destino di cui si diceva precedentemente:
la persona per la quale avevo sempre scritto era lei. Lei era il segreto di qualunque unità artistica io avessi raggiunto. Lei era il segreto della mia tecnica. (p. 23)
È pensando a lei, e alla sua evidente mancanza, durante un volo che avrebbe riportato
lui e il fratello nella città natale per partecipare a un funerale, che nasce
l’idea di questo romanzo, “che parla di
città desolate e di cannibalismo spirituale e di incesto e solitudine e
mancanza d’amore e di morte, e così via” (p. 26). Immersa tra nuvole dalle
forme e le risonanze improbabili, anche la mente di Kurt vola, da una famiglia,
la propria, all’idea assurda e suggestiva di una rete famigliare estesa, vista
come possibile, e unica, via di salvezza
per il genere umano, in un volume che, nei suoi tanti difetti, rivela però
tanto dello slancio etico che anima ogni
scritto di questo autore.
Carolina Pernigo
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