Bulky
di Raffaella Simoncini
Neo, 2022
pp. 160
€ 15 (cartaceo)
€ 6,99 (ebook)
La sua efficienza fa apparire il mio smarrimento inopportuno. Inizio a firmare e lui gira i fogli, uno dopo l’altro, e ogni volta indica il rigo su cui scrivere. Ripeto il nome nove, dieci, dodici volte; ma quella non sono io. Non sono quel nome sulla carta, né la mano che lo scrive. Io sto navigando sospesa nel nulla, alla ricerca di una terra a cui fare ritorno. (p. 16)
Nel linguaggio medico, con il termine “bulky” – ingombrante – si intende una massa tumorale maligna da asportare chirurgicamente. Sono proprio questa massa tumorale e il relativo iter di asportazione, con tutto ciò che ne consegue, al centro del romanzo d’esordio di impronta autobiografica di Raffaella Simoncini con Neo edizioni. Ma se ingombrante è il cancro che affligge la protagonista Luce, ancora più bulky è ciò che intorno all’operazione, alla chemioterapia e al percorso di guarigione gravita: da un lato, infatti, Luce fa ora parte dei malati, e non solo dei malati in generale, ma di quella categoria particolare affetta da quel “brutto male” che troppo spesso non viene neanche nominato, quasi che privandole del nome alcune cose possano perdere la propria gravità intrinseca; dall’altro lato, sembra compito proprio del malato non mostrarsi debole, non far ricadere su parenti, partner e amici l’onere di prendersi cura di lui. È ciò che accade a Luce, la quale deve affrontare con stoicismo il percorso riabilitativo, incastrando i pezzi della quotidianità per far sì che nulla vada perduto, che tutto ciò che è vita – ossia ciò che è altro dal “brutto male”, il quale dovrebbe configurarsi come una parentesi o un inciso all’interno della propria esistenza – resti lì dov’è sempre stato. In alcuni passaggi è la protagonista a rincuorare i genitori e a insistere affinché possa riprendere il proprio posto nello studio di famiglia. E ci si chiede, da lettori, se tutto sforzo continuo sia da ascrivere a un bisogno di normalizzazione, come si è detto, o alla necessità di far coincidere la propria immagine – ancorché malata, stanca, devastata – con quella che gli altri hanno di noi.
Buky parla di cancro, del rapporto fra malattia e guarigione; ma soprattutto parla di un altro rapporto che con il primo è in simbiosi, ossia quello fra verità e falsità. Vero è ciò che sta accadendo a Luce – la malattia, appunto, ma anche le nuove conoscenze che si fanno nelle corsie di ospedale – mentre falso è ciò che, all’interno di quello che appunto dovrebbe essere un inciso come s’è detto, assomiglia sempre più a una pantomima e sempre meno alla vita reale: i rapporti familiari di Luce si mostrano nella propria nudità, quelli affettivi – fondati sulle abitudini quotidiane costruite negli anni – si sgretolano davanti a una nuova realtà, fatta di nuove consuetudini che sembrano richiedere nuove prospettive che i vecchi rapporti non riescono a creare. Davanti a sé la protagonista ha due strade: smantellare quei vecchi rapporti o ricrearli su nuove fondamenta che siano in grado di sostenere l’edificio che verrà. E questa scelta, che va presa prima o poi, è tanto ingombrante quanto la malattia che l'ha causata.
La malattia è dunque quasi in secondo piano nella narrazione, sebbene pervada costantemente le pagine e la quotidianità della protagonista. Ma fra letti di ospedale, corsie sterili e trattamenti chemioterapici, ciò che conta veramente è il modo in cui la malattia sta cambiando la vita di Luce, mostrando percorsi alternativi e prima mai considerati. Bulky è dunque un romanzo di rinascita, che lascia tuttavia una sensazione agrodolce quando giunge a conclusione. Nella semplicità e genuinità del linguaggio usato da Raffaella Simoncini troviamo tutto il bisogno di verità e il punto forte della storia da lei costruita.
David Valentini