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L'Italia è un repubblica fondata su cibo e famiglia: "Dna chef" di Roberta Lepri

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dna chef Roberta Lepri

Dna chef
di Roberta Lepri
Voland, gennaio 2023

pp. 144
€ 16,00 (cartaceo) 


"Il cuoco quando riempie un bignè pensa di fottere. Lo chef invece non pensa. Al limite, è quando fotte che pensa di riempire un bignè. Ed è qui tutta la differenza tra i due" sentenzia calmo Vergnini.
Gli ha appena dato la conferma che stava aspettando. La vede nello stesso modo anche lui.
Ed è, dunque, uno chef. (p. 30)
Guido Nocentini è ormai uno chef affermato. Dirige un ristorante a Roma dopo essersi fatto le ossa a Londra, Parigi e Berlino. È considerato il re della sfoglia ed è famoso per la pasta con i ricci di mare che ha conquistato i palati londinesi. D'altra parte, in qualche modo, ce l'ha nel sangue: il nonno, comunista al confino alle Tremiti, era famoso nell'isola per la pasta cucinata durante la carestia della guerra. Ma, così come suo padre Bruno era scappato dalle Tremiti per lavorare a Taranto, così anche Guido è scappato, troppo pieno di rabbia in corpo e alla ricerca di un modo per farla sfogare ed esprimere. Ora, però, gli viene richiesto di tornare e di salpare di nuovo per San Domino per esaudire le ultime volontà del padre proprio alla vigilia del primo, tremendo, lockdown

La cucina, in narrativa, vive, a periodi alterni, l'innalzamento dato dalla romanticizzazione, da un lato, e dal richiamo mnemonico di odori e sapori, dall'altro. Sulla tematica si può parlare a lungo, portare titoli che raccontano la cucina in maniera salvifica e dai tratti magici, ma la verità è che – e chi ci ha lavorato lo sa – il lavoro in cucina è massacrante e sfibrante. Non importa in quale ristorante o in quale posizione si sia all'interno della brigata: è un lavoro faticoso, usurante e che succhia via il tempo per la famiglia e le relazioni sociali. 
Se poi parliamo di cucina in ambito italiano, l'associazione è che i nostri piatti siano frutto di ricette passate di generazione in generazione, di segreti tramandati e del desiderio di ogni cuoco o chef di onorare la memoria culinaria di questa o quella ava. L'Italia è una repubblica fondata su cibo e famiglia
Roberta Lepri già in Hai presente Liam Neeson? (trovate qui la recensione) aveva sfidato il lettore con una visione sorprendente di una situazione collaudata – la perdita della memoria e il ricordo di una relazione. Con il suo nuovo romanzo Dna chef riesce nell'opera di demitizzazione dell'accoppiata cibo-famiglia e lo fa con due piani narrativi: il primo, nel presente, in cui seguiamo l'ascesa di Guido e il secondo, negli anni Quaranta, con il confino dei dissidenti politici e dei "femminelli" alle isole Tremiti. 
Loro sono quelli dell'alberghiero. Niente licei o scuole da agricoltori o altri studi inutili. Hanno scelto la sicurezza di un mestiere che può dare lavoro subito, e di avere soldi, macchine e moto veloci. E con queste cose, si sa, il minimo che ti può succedere è trovare anche una che te la dà. Una ogni sabato sera. (p. 27)
Guido è quello che assomiglia al nonno Giovanni, cuoco fiorentino e comunista mandato al confino che è rimasto a vivere alle isole Tremiti anche dopo la liberazione. Guido è il figlio riuscito meno bene, secondo i parametri familiari. Non è rimasto a vivere a Taranto, non ha seguito le orme del padre e del fratello, entrambi operai presso l'Ilva, e nemmeno il grande successo professionale l'ha riscattato agli occhi della madre che lamenta la sua assenza e la sua noncuranza, tanto da non comunicargli nemmeno della malattia del padre. 
"A menza canne ha perse 'a mesure." Un mezza cartuccia che non si rende conto dei propri limiti, questo pensavano di lui. Sua madre lo credeva dunque presuntuoso e scemo, alla faccia dello stesso sangue che avevano. Già, ma lei a quanto pare doveva pensare a Giorgio, il fratello buono. Il fratello alto, operaio come suo padre, il figlio che le era venuto bene. (p. 58)
Guido è un perfezionista, carnale e che non disdegna l'uso di droghe per tirarsi su. È soddisfatto di quanto il suo lavoro gli dà in termini economici e di prestigio, ma la rabbia che da sempre lo accompagna si sfoga solo nel tirare la sfoglia alla perfezione. Non cede alla facile trappola del viale dei ricordi che il cibo potrebbe innescare e non ha problemi ad associare la cucina alla morte. 
Si ridiventa polvere, o magari brodo, arrosto, fritto. Si viene manipolati, serviti, ingoiati, digeriti e restituiti alla terra. Ed è tutto qui. (p. 130)
Non eccede nemmeno nello stereotipo dello chef tronfio e amorale. È un personaggio estremamente realistico, fatto di carne e budella, che ritiene di avere il dna dello chef per via della pasta con i ricci di mare cucinata dal nonno. Eppure, di quello che lui crede essere un illustre retaggio, non c'è traccia di ricette tramandate. Né della pasta ai ricci di mare, né del ripieno che faceva la nonna materna: tutti i segreti culinari se ne vanno nella tomba con i loro inventori. Per Guido, essere chef è solo una questione di sangue.
La disgregazione dei legami familiari, che già al presente è avviata, affonda nel passato, quando il nonno è arrivato al confino. La fidanzata Beatrice l'aveva seguito, ma quello che sembra un grande gesto d'amore porta ad anni di fame nera e di privazioni oltre che il confronto con la mentalità di un uomo che, per Beatrice, non è così piacevole come appariva a Firenze. 

Dna chef è un romanzo relativamente breve, eppure, proprio come un buon piatto gourmet, ha dentro di sé moltissimi ingredienti che si apprezzano alcune pagine alla volta e senza necessità di sovrabbondanza nella porzione. È una saga familiare, è romanzo di formazione, è un viaggio di ritorno. Perché chi proviene da un'isola, per quanto cerchi di allontanarsene, è sempre esule e il ritorno richiama in maniera tentatrice. Guido infatti sarà chiamato a tornare alle Tremiti proprio nel momento in cui il mondo sta per sprofondare nella chiusura totale del lockdown. Qui ci si ferma, con l'onestà artistica di riconoscere che siamo ancora troppo sconvolti per raccontare l'esperienza in modo che abbia un valore universale e narrativo, ma questo ritorno non si caratterizza come una catarsi, altro elemento in cui sarebbe stato facile cadere: è l'ineluttabilità dell'esule che rientra. 
È anche romanzo storico, con una ricerca sulle condizioni di vita al confino e con il trattamento riservato agli omosessuali non solo dal regime, ma anche dalla comune popolazione. Ogni situazione, per quanto nota e riconoscibile, è raccontata da un'angolatura diversa: non il completo rovesciamento, ma quell'equilibratura di parole che rende nuova e bilanciata anche la storia più antica del mondo.

Giulia Pretta