Mi limitavo ad amare te
di Rosella Postorino
di Rosella Postorino
Feltrinelli, gennaio 2023
pp. 345
€ 19,00 (cartaceo)
€ 11,99 (e-book)
"Le strade grandi, rumorose/le lascio ai grandi della storia.
Cosa facevo io mentre durava la storia? Mi limitavo ad amare te"
Izet Sarajlic (1930-2002, Sarajevo) Cerco una strada per il mio nome
Che il nuovo romanzo di Rosella Postorino, “Mi limitavo ad
amare te”, sarebbe stato di quelli che ti entrano nel cuore, graffiandoti, ne
avevo il sospetto. Non soltanto perché le aspettative erano alte, dopo “Le
assaggiatrici”, romanzo con il quale la scrittrice vinse il Campiello 2018, affermandosi tra le voci più dotate della scena
letteraria italiana (qui la nostra recensione), ma perché il tema stesso lasciava presagire una discesa nelle viscere dell'inferno, quello che ha sconvolto i Paesi dell'ex Jugoslavia non più tardi di trent’anni fa.
Ancora una volta la narrativa italiana si rivolge alle atrocità di questa guerra, dall'indimenticabile "Venuto al mondo" di Margaret Mazzantini al romanzo "E poi saremo salvi" che l'anno scorso valse ad Alessandra Carati un posto nei sette libri finalisti del Premio Strega (leggi la nostra recensione) e che, in parte, tratta del medesimo argomento, il dolore dello sradicamento. Voci femminili, come Federica Manzon, ma non solo, da Marco Magini a Michele Gambino ad Alessio Parretti, sono tanti gli scrittori di casa nostra ad aver trovato, nelle vicende che hanno sconvolto i Balcani, materia per la narrazione. Romanzi che hanno un posto privilegiato nella mia libreria, così come la città di Sarajevo l'ha tra i miei ricordi.
Rosella Postorino sceglie di partire da una vicenda vera che, come ha raccontato la scrittrice stessa, l'ha colpita profondamente: il bombardamento dell'orfanotrofio di Bjelave a Sarajevo, il successivo trasferimento in Italia dei bambini, inizialmente per un periodo limitato, e la decisione infine di dare in affido o in adozione alcuni bimbi o ragazzi. Senza verificare se invece, i genitori fossero sopravvissuti alla guerra e ne attendessero il ritorno in Bosnia. Perché non tutti erano orfani, alcune mamme avevano visto nell’istituto l’unico modo di dare uno spiraglio di vita ai propri piccoli.
Nada, Danilo, Omar e Senadin sono i quattro ragazzini di cui seguiamo le vicende, dalla loro partenza in pullman fino all’arrivo in Italia (abbiamo ancora negli occhi il ricordo di quelle carovane di vecchi torpedoni pieni di bambini spaventati, tra mille ostacoli e stop continui ai posti di blocco presidiati da militari armati fino ai denti). Un viaggio della speranza, (questo d’altra parte significa in serbocroato la parola Nada), che parte con una lacerazione per ognuno: Danilo viene costretto a dividersi dalla famiglia, che rimane in Bosnia, Nada deve lasciare il fratello Ivo chiamato al fronte, Omar non fa che pensare a quella mamma che gli è stata strappata dalle braccia dallo scoppio di una granata e della quale non sa più nulla, anche se, dentro di sé, è convinto che sia viva, a dispetto di quello che gli dicono tutti, a partire dal fratello più grande Senadin.
Il libro si divide in quattro parti, dal 1992-93 al 2010-11, una ventina d'anni durante i quali i ragazzini di Sarajevo diventeranno uomini e donne. A caro prezzo. Quello di uno strappo dalla propria terra, dalla propria famiglia, dalla propria vita, dalla propria storia, un taglio netto, che mai potrà essere ricucito perfettamente. Lembi di cuore rimarranno sempre, inevitabilmente, attaccati alla vita di prima.
Tra i tanti temi che il romanzo di Rosella Postorino indaga, quello che si pone davanti al lettore con una forza direi quasi atavica è quello del rapporto madri-figli. Tanta, tantissima maternità c'è in questo romanzo e senza alcuna retorica: ci sono madri che abbandonano i propri figli alla porta dell'orfanotrofio con un ceffone perché non possono sopportarne il pianto.. troppo il dolore di una donna costretta dalla miseria a questo passo perché possa permettersi di ascoltare le grida che le strazierebbero il cuore; ci sono madri che spingono i propri piccoli sui pullman in partenza, affrontando il rischio di non rivederli mai più pur di dare loro un'altra vita; ci sono madri mancate che vivono quella ferita come un buco nero che sanguina tutta la vita; ci sono madri che accolgono figli di altre... ma se il mestiere di madre è difficile, quello di madre in affido di bimbi di guerra lo è tremendamente di più, sempre in bilico tra altruismo ed egoismo, desiderio di colmare un vuoto e offerta d'amore, imposizione e concessione; ci sono madri che non accettano che i propri figli si siano rifatti una vita lontano, anche se sono state proprio loro a fare in modo che scappassero via dall'orrore; madri che feriscono, madri che mancano..."odorava di stufa a legna e capelli non lavati, anche se la stufa era spenta da oltre un mese; era lo stesso odore di quando dormivano insieme" (p. 12). Sarà questo ricordo a tormentare il cuore di Omar, per sempre. Ci sono madri prostitute per cui i figli sono solo un accidente nel corso della vita, una casualità.
Quando stava così vicino al suo corpo, la odiava come si odia un nemico (...). Avrebbe voluto ucciderla, sua madre, per difendersi dal dolore di esserne il figlio. Avrebbe voluto torturare quel corpo, aveva fatto godere, quel corpo senza riserbo. (p. 171)
Ci sono madri che si ammazzano per il troppo dolore, per non poterne più, per il desiderio che tutto finisca. E figli costretti a vegliare il corpo morto della madre, una madre che non è più una madre, ma è solo un corpo.
No, non è una maternità zuccherosa quella che racconta Postorino, tutt'altro. In guerra non c'è tempo, non c'è modo di dare carezze, di raccontare favole della buonanotte, di scompigliare i capelli. Si deve lottare per sopravvivere, per portare a casa il proprio corpo sano e salvo. Quel corpo che tanta parte ha nella sfera genitoriale raccontata dalla scrittrice: il corpo della madre è la prima casa del bambino, l'unico luogo dove si sentirà invincibile per tutta la vita, fino al momento della separazione, la prima sconfitta della vita che il piccolo affronta infatti con un pianto disperato. Il corpo di una donna che deve diventare madre è anche il chiodo fisso dei nemici in guerra che utilizzano il corpo delle donne come terra di conquista, per spargere sul territorio il seme del proprio popolo, è l'orrore dello stupro etnico che le donne bosniache hanno tristemente conosciuto. La lacerazione del dover amare un figlio che è carne della propria carne, ma frutto di una mostruosità.
Tu l'hai mai fatto, l'amore, amica mia? Me lo immaginavo diverso. Com'è possibile siano identici, i gesti dell'amore e del sopruso? (p. 178)
Tutto questo i bambini di Sarajevo lo vivono sulla propria pelle. E mentre tutto manca, la mamma, la patria, la casa c'è anche la fatica di farsi accettare in un nuovo Paese. Tra i ragazzini protagonisti del romanzo c'è chi desidera ardentemente avere una nuova vita in Italia, "rinascere", letteralmente nascere un'altra volta, lasciandosi alle spalle tutto il proprio passato, come Danilo che vede nella conquista di una fidanzata italiana il segno della propria vittoria. O come Senadin, felice di essere adottato.
"Dove vai?" Omar si lanciò su di lui, si aggrappò alla sua schiena, ma sen si scosse fino a farlo cadere. Non si fermò neppure per aiutarlo a rialzarsi. proseguì per la sua strada, probabilmente contento di essersi scrollato la propria storia di dosso. (p. 155).
C'è invece chi, come Omar, non si rassegnerà mai a scordare il proprio passato, anche se, per ironia della sorte, dimenticherà la lingua per raccontarlo. I due fratelli rappresentano icasticamente i due modi opposti di reagire allo sradicamento. Tanto Senadin è proteso al futuro, quanto Omar guarda dietro di sé, tanto quanto il primo è realista e desideroso di godere il lato positivo della situazione, tanto il più piccolo è sognatore e incapace di adattarsi a un mondo che non è più il suo. E poi c'è Nada, bimba tosta, irruente, quasi aggressiva, lei che ha imparato presto dalla vita come a volte le madri possano ferire... e non solo metaforicamente. Sarà lei il perno delle vite di questi ragazzi, la loro àncora e il loro trampolino. Lei che è costretta a costruirsi un modo suo proprio di restare al mondo, senza l'aiuto di nessuno.
Leggere questo romanzo nel momento in cui l'Europa è lacerata, ai propri confini, da un'altra guerra (anche se l'autrice ha iniziato questo lavoro nel 2019, prima dello scoppio del conflitto russo-ucraino), vedere questi bimbi biondi inseriti nelle nostre classi, costretti a imparare una lingua così diversa, rivestiti con i nostri abiti smessi, con negli occhi la paura e i ricordi, è la riprova che temi come questi sono purtroppo sempiterni ed è solo la tendenza, tutta umana, a occuparci e preoccuparci maggiormente di ciò che è vicino a noi, a farci dimenticare talvolta che nel mondo ci sono sempre bambini che soffrono a causa di una guerra. Su questo si innestano altre riflessioni, come la liceità di certe decisioni prese a fin di bene. Qual è il confine fra altruismo ed egoismo quando si desidera fortemente diventare genitori, eventualmente anche prendendo con sé i figli di altri? Certo, tutto è fatto a fin di bene, le famiglie che accolgono sono eccezionali e meritorie, ma Rosella Postorino prova a mettersi nei panni degli altri, di coloro che si sono trovati nelle condizioni di chiederlo, quel bene. E porta il lettore a fare riflessioni di questo tipo, non convenzionali, non retoriche.
"Il loro desiderio più persistente si era realizzato grazie alla sciagura di un intero Paese, grazie a una madre saltata in aria. Affinché una donna senza figli possa allevare il figlio di un'altra, serve una quantità smisurata di sofferenza all'origine. Che la madre biologica sia morta o no, è comunque in corso un lutto. Dovresti saperlo, quando ti prendi in casa un orfano, pensava Omar, che se tu hai vinto è perché io ho perso. Mia madre, ho perso" (p.222)
Con una maturità linguistica già riconosciuta e una potenza narrativa ormai consolidata, Postorino scrive un romanzo corale, ricco di individualità che fanno da contrappunto l'una all'altra in un rimbalzarsi di voci, di storie, di emozioni, paure e desideri. Dove tutto viene vissuto e raccontato all'ennesima potenza, come la guerra costringe a fare.
Ps Tutta la storia dei bambini di Bjelave, per chi fosse interessato ad approfondire, è riportata dal sito www.balcanicaucaso.org, che nel corso degli anni ha pubblicato indagini, articoli, studi e testimonianze sui 46 bimbi che nel luglio del 1992 furono accolti a Milano. Alcuni di loro furono poi dati in adozione e l'ultimo ad aver ritrovato la propria madre biologica è stato Amer (in Italia diventato Luca) che ha saputo che la madre Hirija era viva nel 2018. E che per 26 anni l'aveva cercato.
Sabrina Miglio
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