Il metodo del dottor Fonseca
di Andrea Vitali
Einaudi, 2020
pp.
192
€ 16,50 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Il metodo del dottor Fonseca
è, va detto prima di tutto, un’opera che spiazzerà
i lettori abituali di Andrea Vitali. Per chi, com’è capitato a noi, lo dovesse
scegliere sostanzialmente per caso su Audible, guidato solo da una lunga affezione
all’autore, per un intrattenimento sicuro durante un lungo viaggio in auto,
risulterà fin da subito, e sempre di più proseguendo nell’ascolto, destabilizzante. Sebbene a tratti
riemerga la tipica ironia dell’autore, appare subito chiaro che qui Vitali sta
cercando di fare qualcosa di diverso, nei
contenuti e nelle forme narrative. Lo fa, inizialmente, con uno spaesamento
spaziale, allontanandosi da Bellano per penetrare le periferie di una grande
città, e inerpicandosi poi lungo irte strade di montagna, fino al piccolo borgo
(inesistente) di Spatz, “una cacca di
mosca a ridosso del confine”. Il narratore ha i tratti ambivalenti dei protagonisti dei romanzi noir: beve troppo,
sopporta con fastidio l’autorità e le leggi, è relegato in ufficio per aver
usato la pistola con troppa leggerezza durante un’azione sul campo e il caso
stesso che gli viene affidato è ulteriore complemento di punizione inflittogli
dal capo, detto il Maiale per ragioni non lusinghiere.
Nessuno, oltre me, poteva meritarsi quell’incarico di merda. Il paese distava circa trecento chilometri. Calcolai che per arrivarci ci volevano quattro ore buone. Cinque o sei a prendersela comoda, come avrei fatto io. In fin dei conti dovevo andare lassù a fare la marionetta. “Stringi qualche mano, fai finta di indagare”, aveva detto il Maiale. Tanto valeva godersela.
Si tratta, in fondo, dell’occasione per interrompere, anche se solo
momentaneamente, “la piacevolissima vita
di merda che da qualche tempo conducevo senza troppe domande”. Poco importa
se le dinamiche dell’omicidio appaiono già chiare: la vittima è una ragazza
uccisa a bastonate. Il fratello, malato di mente e soggetto ad alterazioni
frequenti dell’umore, è scomparso e le autorità danno per scontato che sia il
colpevole. L’ispettore deve quindi limitarsi a prendere atto degli eventi,
supportando le autorità locali.
L’ascesa verso Spatz, piena di imprevisti, contribuisce però
a creare un sottile senso di tensione,
che suggerisce un imminente complicarsi della situazione. Il paese (noto in
pianura per l’antica impiccagione di un ladro di cavalli) appare dominato da atmosfere lugubri, gotiche, in un
ottobre che sa già di pieno inverno. Il caso di omicidio non giova certo alla
nomea del villaggio, come il rappresentante del Consorzio turistico, il
Massiccio, non manca di constatare, spingendo per una rapida liquidazione delle
indagini. Anche la guardia, incaricata di supportarlo nelle ricerche, pare
stolida e poco intuitiva. Più acuto, seppur a suo modo inquietante, risulta
invece Ermini, compagno di pensione, che lì soggiorna in attesa di avere
notizie del fratello gravemente malato. È da lui che il narratore viene a
sapere dell’esistenza della Clinica.
Se Spatz si trova al margine della frontiera, la clinica
opera in un vecchio sanatorio, oltre il confine, nella sottile striscia che non
appartiene ad alcuna nazione detta “terra
morta”. Accoglie solo i
“casi estremi, oltre il limite”,
quelli che vengono rifiutati altrove perché senza speranza. Chi ci entra deve
firmare una dichiarazione in cui accetta di “rinunciare alla vita”, cioè entrare in una zona grigia in cui tutto
è possibile, compresa una guarigione in cui nessun altro confida. Chi arriva alla
clinica scompare dal mondo, e spesso non ricompare più. Per chi è senza
speranza, tuttavia, rinunciare a tutto non è necessariamente un peso. L’ombra
spettrale del sanatorio si allunga sul villaggio: apparentemente luogo di cura,
in mano a un Professore esimio, in realtà le dinamiche che circondano il
ricovero e le scarse informazioni che ne escono non fanno che alimentare i
sospetti di qualche affare oscuro.
Inizialmente svogliato, poco propenso ad approfondire,
l’ispettore si trova coinvolto suo malgrado in una notte lunghissima e agitata da incubi profetici, visioni
spettrali, telefonate sospette origliate per caso e visite sul luogo del delitto
a cercare indizi, che culminano in risse con figure annidate nel buio e nel
ritrovamento di un diario minutamente annotato.
Andrea Vitali si cimenta con un noir con alcuni tratti alla Dürrenmatt, basato più sulla
costruzione di atmosfere e ambienti che sui fatti in sé. La voce della ragazza
uccisa, le cui parole risuonano nitide attraverso le pagine del diario, delinea
progressivamente il rapporto con il fratello a partire dal momento della morte
della madre. Viene introdotta l’idea di un
rapporto intenso, viscerale, in cui si inserisce un terzo incomodo a
guastare l’idillio. Ma chi sia il vero responsabile, e se la soluzione si trovi
lì, è tutt’altro che detto. Anche perché rimane presente, vivida, la memoria
della clinica che infatti, puntualmente, rientra nella trama, per diventarne forzatamente
protagonista.
Viene esplicitato così ciò a cui fa riferimento il titolo,
che rappresenta a posteriori uno spoiler financo eccessivo: la morale deviata,
il metodo della clinica, introdotti
dal Professore e poi traditi dal dottor Fonseca, che novello Mendele piega al lucro i suoi esperimenti dell’orrore,
coinvolgendo molti degli abitanti del paese. La speranza dei disperati viene
mercificata, i loro corpi valutati a peso d’oro su un mercato molto redditizio,
e chiunque si frapponga alla realizzazione del piano deve essere tolto di
mezzo.
Quello che dà vita a questo romanzo non è il consueto Andrea
Vitali, e funziona meno del solito, forse anche per via delle aspettative
disattese di chi già lo conosce nelle sue vesti bellanesi. Alcuni aspetti della
vicenda avrebbero potuto essere sviluppati maggiormente e il ricorso all’elemento soprannaturale, pur se
funzionale alla storia, non convince fino in fondo. Nonostante non ci siano
palesi violazioni del patto narrativo, il lettore vorrebbe essere condotto più
a fondo, veder esplicitata maggiormente la riflessione
esistenziale che a tratti fa capolino, soprattutto nel finale.
Restano, comunque, alcuni spunti interessanti, cui si può fare
solo un rapido cenno per non rovinare la lettura. La terra dei morti, zona di
frontiera, è anche il limite tra
razionale e irrazionale, cosciente e subcosciente, quella in cui la
permeabilità tra le menti è massima e il pensiero può farsi strada tra un
individuo e l’altro lungo canali altrimenti imprevedibili. Il distretto di
Spatz rappresenta una soglia in cui la vita del protagonista può subire una
svolta, ma l’esperienza fatta in quei luoghi, e a suo modo rinnegata,
riplasmata in una forma più docile, addomesticata dal mondo esterno, può essere
rievocata solo nella memoria di chi l’ha vissuta. Così anche il personaggio di
Ermini si fa evanescente, salvatore che risponde una volta soltanto e poi
rimane lontano e silente. Per l’investigatore, incapace di tornare alla vita
precedente, si apre quindi l’unica opzione di una svolta, segnata però dall’impossibilità di dimenticare o lasciar
andare del tutto ciò che è accaduto, in attesa di un chiarimento che, forse,
non arriverà mai.
Carolina
Pernigo