«Che cosa sei?», "Solo un ragazzo", il romanzo oscuro e meraviglioso di Elena Varvello



Solo un ragazzo
di Elena Varvello
Einaudi, 2020

pp. 192
€ 18,50 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


È una storia di fantasmi. Solo un ragazzo, di Elena Varvello – una delle voci più potenti della narrativa italiana contemporanea – è uscito un paio di anni fa per Einaudi; l’ho letto ora, insieme al mio gruppo di lettura e quello che ci ho trovato è una storia che ha l’eco della tradizione breve per una certa postura autoriale, fatta di dialoghi scarni, frasi asciutte, parole cesellate con cura. Lo leggo, il caso vuole, a poca distanza da una storia per certi versi simile ma profondamente diversa per respiro, Una famiglia americana di Joyce Carol Oates, edito da IlSaggiatore. In entrambi i romanzi il male irrompe tra le mura domestiche e una famiglia si disgrega nel fare i conti con la violenza, la perdita, l’incomprensione. Ma dove la storia di Oates si lascia trasportare dalle digressioni, il narratore interno che seguo il filo del ricordo – vero o presunto – come tante scatole cinesi e un fiume di dettagli e particolari retti da una lingua strabordante, quella di Varvello è fatta invece di una scrittura più asciutta, lavora in sottrazione, non concede spazio alla consolazione o all’happy ending e scava, usando di volta in volta un punto di vista differente, nelle vite fatte a pezzi dalla deflagrazione.

È, dicevo, una narrazione che ha molto in comune con la short story, al punto che certi capitoli mi sono parsi racconti a tutti gli effetti, che potrebbero trovare autonomia fuori dal romanzo. A suggerire la comunanza con la forma breve è proprio una certa postura autoriale, un modo di osservare le cose e renderle sulla pagina, l’uso degli spazi vuoti, la storia sommersa e la sua eco fortissima sulla pagina. I dubbi e le domande che restano alla fine della lettura, i vuoti da colmare. Una storia amara, durissima a tratti, che racconta il lato oscuro dell’adolescenza e forse soprattutto le paure degli adulti, dei genitori, che con certe adolescenze hanno a che fare. C’è un ragazzo, di cui non sapremo mai il nome, nemmeno le iniziali, che è presenza costante di tutta la vicenda anche se già da molto tempo scomparso. Una famiglia ordinaria, un padre, una madre, due sorelle, una casa ai margini della città; lei per molti anni ha fatto l’infermiera e il ricordo dopo è tornato spesso a quelle vite che ha sfiorato; lui è un professore di matematica nel liceo locale, immagina per la figlia più promettente una carriera accademica; le due figlie – che per buona parte del romanzo Varvello ci spinge a confondere l’una con l’altra – si comportano come ragazze della loro età, condividono segreti piccoli e grandi, cercano di farsi adulte. E lui, il ragazzo. Ai margini. Della famiglia, della vita. Solitario, “strano” dice qualcuno sottovoce in città. Outsider, disadattato. Sono molte le etichette che potremmo appiccicare a quell’adolescente silenzioso, il cappuccio della felpa nera sempre calcato in testa. Alla deriva, nel tentativo di trovare la propria dimensione e identità; anche di questo Varvello dissemina la storia di piccoli indizi, possibilità, pezzi di un puzzle che non vedremo compiuto perché si dissolve molto prima. C’è solo un posto dove il ragazzo si sente intero, a suo agio, ed è una capanna nel bosco; lì colleziona i cimeli dei piccoli furti nelle case in cui si introduce, un gioco che si fa sempre più pericoloso.
Non c’era nessuno a cui tornare, solo quella capanna assemblata malamente, il sogno di una casa in cui si era illuso di poter essere se stesso, qualunque cosa questo significasse. Ciò che del mondo era riusciti ad attrarlo – le stanze sconosciute in cui si era aggirato, la vita della gente che continuava a scorrere, piccoli fuochi misteriosi – era durato così poco. (p. 178)
Sappiamo fin da principio che qualcosa di grave è accaduto. Ed è lì che si apre la crepa. Tutto cambia per sempre e la storia che leggiamo è quella di una famiglia che fa i conti con quello che resta. «Cosa ne è stato di ciascuno di loro? Dove sono finiti?» è la domanda che si rincorre di pagina in pagina, mentre ogni cosa va in frantumi. Sara, la madre, diventa un fantasma nelle loro vite, aggrappata al proprio dolore; non esce quasi mai dalla sua stanza e tra lei e suo marito Pietro un abisso di colpa e accusa. Resta lì, a vagare per le stanze, quasi per nulla partecipe alla vita che è andata avanti, vent’anni. Le figlie sono diventate adulte, hanno scelto le loro strade, una di loro ha costruito una famiglia, ma vent'anni non cancellano il dolore e la confusione.

«Che cosa sei?» aveva chiesto Pietro a quel figlio che non ri-conosce, del quale non sa scandagliare le ombre, i disagi, le azioni violente. Un istinto violento che però in qualche modo è anche dentro lui stesso, dentro tutti loro in realtà: è nel sesso extraconiugale di Pietro, brutale e mortificante; è nei gesti e nelle frasi spietate di Sara che reagisce con rabbia a parole che non sopporta più di sentire:
Non dirmelo mai più, avrebbe gridato Sara, un giorno di fine ottobre. Non usare mai più quella parola. Amore. Non con me. Non la sopporto più. (p. 62)
È nella deriva della vita di Angela, nei segreti che custodisce, nel rapporto con la sorella Amelia, nelle situazioni sempre più pericolose in cui si ritrova. È in tutti loro, in forme diverse. E, ancora, tutti loro che sono vulnerabili di fronte al dolore, al trauma che li ha colpiti. Le ombre del ragazzo, che la famiglia non riesce o forse non vuole davvero vedere fanno da specchio al mistero dell’adolescenza e di ognuno di noi, fino a che punto conoscibili per l’altro. I segreti che si portano dentro, la manipolazione della memoria.
Amare una persona e non poter fare nulla per impedirle di svanire. O non capire in tempo – prima che fosse troppo tardi – di che avesse bisogno, quali segreti nascondesse. (p. 85)
Ognuno di loro – di noi – nasconde abissi, ombre imperscrutabili. Su quelle distanze, tra le parole che mancano, Varvello ha costruito una storia che si insinua sotto pelle, la lingua scarna che fa eco alle emozioni inespresse, la coralità del racconto l’unica forma possibile per tentare di comprendere quello che è stato per ognuno di loro. E, ultima, la voce di lui, del ragazzo, in un capitolo struggente, che tanto spiega ma ancora molto lascia in sospeso. Ecco, la storia sommersa. Ma è anche l'eco di occorrenze verso altri testi, gli stessi luoghi, certi misteri accennati, che si ritrovano ne La vita felice, il romanzo precedente, tematiche e spunti che si rincorrono, che ci ossessionano. Le colpe, le crepe sulla facciata, il mistero, gli abissi. È materia che nelle mani esperte di Varvello si piega a una lingua cesellata, bellissima e brutale, in una perfetta commistione tra storia e modo di narrarla. 
È un grande dono, a noi lettori. 

Debora Lambruschini