«Perché le donne con un buon salario dovrebbero sposarsi?»: di indipendenza, libertà e voci femminili. "Donne d'America", un'antologia di racconti imperdibile



Donne d'America
a cura di Giulia Caminito e Paola Moretti
Bompiani, 2022

Traduzione di Paola Moretti e Amanda Rosso

pp. 408
€ 20 (cartaceo)
€ 12,99 ebook


La mia predilezione per il racconto è cosa nota. Un interesse nato ormai diversi anni fa quando, chissà per quali vie, dal canone letterario che ci propinavano a scuola ho iniziato a vagabondare verso la short story; poi alla lettura un po’ disordinata di racconti si sono aggiunti per fortuna gli strumenti adeguati con cui tentare di afferrare questa forma, comprenderla e una storia dopo l’altra restarne totalmente avvinghiata. Ho finito per specializzarmi all’università – e per certi versi anche nel lavoro – proprio sulla narrativa breve, che se già di per sé rappresentava una sorta di nicchia decidere di studiare quattro autrici misconosciute ne era la conferma. Lì si è aperto un mondo.
La lunga fin de siècle, che va dal 1880 fino allo scoppio della prima Guerra Mondiale, è stato un momento cruciale per la short story in lingua inglese, determinante anche per ciò che leggiamo tuttora. E le autrici, la cui voce continua ancora troppo a restare soffocata dal peso del canone tradizionale maschile, sono state le protagoniste di quel periodo, la golden age della short story, dando vita dentro e fuori la pagina scritta al fenomeno della New Woman.
Un momento centrale per lo sviluppo della narrativa breve per il quale il contributo delle scrittrici è stato determinante ma, come troppo spesso accade, a lungo minimizzato, ignorato. Dal canto mio ricordo di essere rimasta folgorata leggendo alcuni di quei racconti, che colpivano come uno schiaffo per la schiettezza con cui trattavano tematiche quali l’adulterio, il sesso, il desiderio, l’indipendenza femminile, la maternità; di quei nomi che nei lunghi mesi della tesi avevo imparato a conoscere come amiche, restavano però poche tracce nel canone ufficiale, nelle antologie contemporanee, praticamente quasi nessuna nel panorama italiano: Gerge Egerton (pseudonimo di Mary Chavelita Dunne Bright), Sarah Grand, Mona Caird, Ella D’Arcy, le quattro scrittrici sulle quali avevo concentrato la mia ricerca; e, ancora, qualche altra scrittrice che invece è riuscita a resistere al tempo e alla pressione editoriale, come Kate Chopin, Charlotte Perkins Gilman, Willa Cather, Edith Warton, Sarah Orne Jewett. Autrici note e meno note, alcune di queste oggetto di riscoperta relativamente recente, altre conosciute soprattutto per i loro romanzi e vicende personali; ma è lì, nella forma breve, che avevano trovato una dimensione privilegiata dove riversare le urgenze del tempo, dove sperimentare tanto da un punto di vista tematico quanto formale.

Ho fatto questa premessa, anche personale, per ricordarmi dove ha germinato il seme della passione per la short story e anche la fatica al tempo delle ricerche di reperire i testi, della maggior parte dei quali non esisteva – e almeno delle mie quattro autrici non esiste tuttora – traduzione italiana e quelli originali erano complicati da trovare, pur avvalendosi dei supporti messi a disposizione dell’università. Capirete quindi con quale spirito accolga pubblicazioni come questa antologia Donne d’America, curata da Giulia Caminito e Paola Moretti (che firma anche la traduzione insieme ad Amanda Rosso), uscita già qualche tempo fa per Bompiani. È un tassello importante nella costruzione del canone letterario moderno, non solo relativamente alla short story ma della narrativa in genere, e che rende disponibile al lettore italiano autrici e testi spesso mai tradotti, ponendo accanto nomi praticamente sconosciuti alla maggioranza dei lettori ad altri più famigliari, nella costruzione di un discorso letterario che alla fine della lettura si rivela in tutta la sua omogeneità e occorrenze.

Diciotto scrittrici statunitensi, diciotto racconti che coprono un arco temporale che va dal 1850 al 1950, un periodo attraversato da profondi mutamenti, di cui queste autrici fotografano chiaramente la loro porzione di mondo. Una «realtà multiforme», sfaccettata, di cui questi racconti mettono in evidenza le contraddizioni, il punto di vista femminile che per mezzo della forma breve si spinge lì dove il romanzo non osa, raccontando le inquietudini, il desiderio di indipendenza, l’oppressione patriarcale, l’ossessione. Una mappa su cui sono tracciate nuove strade della narrativa nordamericana moderna, di cui Caminito e Moretti hanno saputo mettere insieme voci note e altre da scoprire, tutte in qualche modo in dialogo fra loro; non soltanto per l’appartenenza di genere ma anche per la postura autoriale, l’urgenza, il punto di vista femminile sulle cose e, molto spesso, il desiderio di rottura: con il canone, con l’oppressione maschile, con le convenzioni, gli stereotipi.

C’è almeno un racconto che già da solo varrebbe tutta l’antologia ed è ancora una volta un testo a cui sono particolarmente legata: La carta da parati gialla, di Charlotte Perkins Gilman è la short story che porto sempre ad esempio quando nei miei corsi e approfondimenti parlo di New Woman fiction, ma anche di compenetrazione tra storia e modalità narrative che è alla base di un buon racconto.
Questa carta da parati mi guarda come se sapesse che orribile influenza ha su di me. C’è un disegno ricorrente nel motivo che sembra un collo spezzato con due occhi bulbosi che mi fissano sottosopra. Questa impertinenza e la sua costante presenza mi fanno infuriare. Strisciano su e giù e poi di lato, e quegli assurdi occhi spalancati sono ovunque. (La carta da parati gialla, Charlotte Perkins Gilman, p. 187)
È la storia di un’ossessione, che tocca temi quali la malattia mentale, la depressione post partum, l’oppressione patriarcale. Siamo nella mente della donna protagonista, che pagina dopo pagina scivola sempre più nell'inquietudine, al punto che alla fine è difficile distinguere chiaramente il confine tra realtà e immaginazione. L’incubo, come ci insegnerà anche Shirley Jackson, il male, difficilmente ha le sembianze di un mostro: è nella casa, è nelle pieghe più oscure dell’animo umano. E, come spesso accade alle donne di Jackson, anche qui sotto l’apparente quiete ribollono desideri repressi e la brama di conquistare la cosa più difficile di tutte: la propria libertà.
Ma in quel momento aveva un’aria assente negli occhi e il suo sguardo fermo si perdeva lontanissimo, su uno di quei frammenti di cielo limpido. Non era un’espressione riflessiva, ma piuttosto indicava una sospensione del pensiero analitico. Qualcosa la stava raggiungendo, e lei l’attendeva con timore. Di cosa si trattava? Non lo sapeva; era troppo impalpabile e sfuggente per poterlo nominare. […] Quando si abbandonò, una parolina sussurrata le sfuggì dalle labbra socchiuse. La mormorò fra i denti ancora e ancora: “Libera, libera, libera!”. (La storia di un’ora, Kate Chopin, p. 68)
Libertà è il desiderio che la protagonista del racconto di Kate Chopin brama al punto da venirne sopraffatta. È qualcosa di complesso, che non si spiega necessariamente con un legame matrimoniale oppressivo, tossico come diremmo oggi: no, in certi casi, come in questo, è quel senso di avere finalmente il controllo del proprio tempo, di sé stessa, non più vincolate dai doveri coniugali, da ciò che la società ci impone, dagli stereotipi cui ci è richiesto di sottostare. Storture che risuonano famigliari ancora oggi e che Alice Dunbar Nelson nel suo racconto La donna legava al tema del tempo per sé, della cura domestica, per certi versi appunto ancora tristemente attuale:
Quindi perché mai dovrebbe affrettarsi a rinunciare a questa libertà in cambio del servaggio, a volte dolce, è vero, ma che troppo spesso diventa insopportabile e intollerabile? Non è il matrimonio che condanno, poiché non credo che nessuna persona sana di mente lo farebbe, ma è il maritare all’ingrosso ragazze così giovani, questo affrettarsi verso un ignoto progetto di vita per sottrarsi al lavoro. Sottrarsi al lavoro! Quale casalinga osa prendersi del tempo per sé? (La donna, Alice Dunbar Nelson, p. 74)
«Perché le donne con un buon salario dovrebbero sposarsi?» si chiede appunto l’autrice e, ahimè, riflettendo su certe realtà la risposta potrebbe risuonare un bel po’ amara. Perché dovrebbe sacrificare sé stessa per compiacere e servire un altro, quando invece scegliendo di non sposarsi, tolto il tempo da dedicare al lavoro, il resto sarebbe solo «suo, indisturbato dall’inquieto andare e venire dei doveri casalinghi»? Certo un matrimonio, una relazione è affare complesso e gli equilibri fortunatamente sono nella maggior parte dei casi cambiati. Ma in questi racconti c’è tutta l’urgenza di una presa di coscienza collettiva, del desiderio di indagare l’animo femminile oltre gli stereotipi, di interrogarsi su identità, passioni, istinti. E di fotografare un pezzo di mondo, restituendoci un frammento.

Leggere oggi queste autrici per mezzo della bella antologia curata da Caminito e Moretti – nella quale, tra l’altro, c’è anche un interessante apparato critico-biografico essenziale – è prima di tutto l’occasione per aprire il nostro sguardo di lettori per accogliere le tante possibilità della forma breve che nelle mani delle scrittrici ha saputo esprimere la complessità del mondo in cui si è sviluppata, ma anche e soprattutto costruire un ponte che da loro arriva a noi, oggi.

Debora Lambruschini