di Ha-Joon Chang
L’ignoranza e, talvolta, la malizia conducono all’uso di stereotipi culturali negativi nei confronti delle culture "aliene". Ci limitiamo a selezionare le caratteristiche negative di una cultura che riteniamo estranea e attribuiamo i problemi socio-economici di quei paesi a quella cultura. Ma questo porta a non considerare le cause reali dei problemi. (p. 36)
Dall’ampia rosa degli argomenti trattati nel libro, tutti interessantissimi e scritti in un linguaggio accessibile, si prova sincero imbarazzo nello scegliere i passi più significativi, in quanto ogni capitoletto porta con sé sempre scoperte interessanti, riflessioni importanti e golose curiosità.
Sì, è proprio un libro strano, come ha confessato il suo autore, che aveva sempre cullato il sogno di parlare di cibo e di cucina ed ha poi avuto la brillante idea di unire l’utile al dilettevole.
L’importanza dell’economia nella vita di ogni cittadino è molto più determinante di quanto si possa pensare: è riduttivo pensare solo a questioni come reddito, lavoro e pensioni. Le teorie economiche influenzano le politiche di governo in materia di spesa pubblica, tasse che influiscono sui salari, mutui e prestiti. Il professor Chang va oltre, sostiene che
l’economia cambia la nostra identità. L’impatto su di noi avviene in due modi. L’economia crea idee: le differenti teorie economiche assumono qualità diverse che costituiscono l’essenza della natura umana, quindi la teoria economica prevalente influisce su ciò che consideriamo «natura umana». (…) L’economia agisce inoltre su ciò che siamo, influenzando il modo in cui si sviluppa il mercato e quindi quello in cui viviamo e lavoriamo, che a sua volta ci modella. (p. 23)
Con queste premesse è impossibile non riconoscere l’importanza dell’economia nella vita di ogni giorno, nello studio dei comportamenti umani, nelle relazioni tra gli Stati, nelle scelte di governo. Chang ci introduce in questa meravigliosa «tana del Bianconiglio» - parole sue - dove, ad esempio, dietro la semplice riflessione sulla chiusura culturale che colpisce un certo tipo di cucina che usa gli insetti come fonte di proteine, passa a parlare del protezionismo e dell’intervento dello Stato in economia, cioè della negazione del libero scambio, del laissez faire, laissez passer. Più volte lo scrittore lancia strali sul liberismo economico, ma, lo fa, ugualmente con le altre teorie, tra cui quella neoclassica e il protezionismo, a testimoniare quanto esse siano ingredienti che possono essere utilizzati in alcune ricette, ma che non sono validi per tutte le altre. Per la precisione, nel capitoletto intitolato Gamberi o gamberetti? , oltre a farci riflettere sul fatto che mangiare certi crostacei equivale, nella sostanza, a mangiare il corrispondente ‘prataiolo’ di grilli e cavallette
Ci saranno più persone che mangeranno insetti se li rinominiamo? Credo che dovremmo chiamare i grilli "gamberi di bosco" e le cavallette "scampi di campagna" (langoustines de champs li renderebbe ancora più popolari?). (p. 75)
l’autore ci spiega quanto sia stato importante l’intervento del governo nel "miracolo economico" del Giappone, che negli anni Ottanta, nel giro di pochi decenni, riuscì a diventare leader mondiale in alcuni settori, come quello automobilistico, siderurgico ed elettronico, fino ad affermarsi come vera e propria potenza mondiale. Il Giappone era, negli anni Cinquanta, leader mondiale nella produzione e nell’esportazione di seta - e pare che gli stessi giapponesi mangiassero anche le pupe, una sorta di larva post embrionale, del baco da seta, così come la mangiavano i sudcoreani, conterranei del nostro professore - , ma sul piano tecnologico era molto arretrato rispetto ad americani ed europei. Lo Stato dovette intervenire, centralizzando l’economia, favorendo il mercato interno e scoraggiando importazioni di beni provenienti da altri Paesi. Si tratta della teoria dell’"industria nascente" e non è stata inventata dai Giapponesi, bensì dal presidente americano Alexander Hamilton. Nella delicata fase di industrializzazione di una nazione, serve non il libero scambio, che stritolerebbe i piccoli imprenditori, mangiati dai "pesci grossi" dell’economia, ma un governo che con le sue politiche protegga le industrie ancora immature per competere nell’arena del mercato internazionale. In questa visione un po’ darwiniana, ma reale, dell’iniziale struggle for life delle piccole e medie realtà industriali, il protezionismo è la chiave giusta, ma non l’unica, nel senso che può non bastare da solo. Le industrie che sono state "nascenti" hanno avuto all’inizio bisogno di politiche di governo ad hoc, ma in seguito si sono sforzate di allentare e poi di tagliare il cordone ombelicale della politica protezionistica.
Senza la protezione dell’industria nascente, tutti quei paesi un tempo gamberi economici, come la Gran Bretagna nel XVIII secolo, gli Stati Uniti, la Germania e la Svezia nel XIX secolo oppure Giappone, Finlandia o Corea nel XX secolo - non sarebbero stati in grado di trasformarsi nei pesci grossi dell’economia mondiale che sono oggi. (p.80)
Nel capitoletto Acciughe, dopo la parentesi storico-culinaria, l’economista sostiene la necessità di un altro grande pilastro dell’economia di un paese: il know how, l’investimento nella ricerca scientifica e tecnologica. Le innovazioni tecnologiche hanno permesso di riprodurre dal nulla le materie prime che hanno fatto nell’Ottocento la fortuna di alcuni Stati. Prima dei prodotti ottenuti per sintesi chimica, degli Stati prosperavano grazie alla fortuna di avere in loco risorse naturali importanti per l’economia del tempo: il Perù, ad esempio, era il principale esportatore di guano di uccelli marini (grandi divoratori di acciughe), un fertilizzante molto apprezzato prima che il Nobel tedesco Fritz Hager inventasse il metodo per isolare l’azoto dall’aria ottenendo ammoniaca, da cui ricavare fertilizzanti artificiali. Stesso discorso vale per la produzione di caucciù in Brasile, rimpiazzato da un sostituito sintetico. L’economia insegna che il primato di produzione di bene primario è quanto di più transitorio possa esistere date le conoscenze scientifiche, per cui anche un paese privo di materie prime, in maniera relativamente facile può sempre riprodurne.
Quando si acquisiscono capacità produttive più elevate attraverso l’industrializzazione, si possono superare i vincoli che la natura ci ha posto nei modi più "magici": si può creare la tintura rossa più vivida dal nero del carbone più nero, creare fertilizzanti dal nulla e moltiplicare di molto il terreno a disposizione senza invadere un altro paese. (p. 71)
Un libro ricchissimo di spunti di riflessione (e anche di veloci ricette disseminate qua e là), di conoscenze importanti per essere un cittadino consapevole, attrezzato degli strumenti per sapersi orientare in una società e in un mondo che cambiano continuamente, dove nessuna teoria economica è efficace a lungo termine e ovunque, e dove il concetto di imprenditorialità diventa collettivo.
Capitale umano, pari opportunità, capacità di reinventarsi, economie sommerse, scelte politiche giuste, scambi ineguali, azionariato lungimirante, scelte “green” dall’industria alla tavola…questo e tanto altro in un godibilissimo saggio in cui il professor Chang sfata tutti i falsi miti creatisi col pregiudizio e l’ignoranza sulle teorie economiche. Come un piatto buono e nutriente dove sono sapientemente dosati i vari ingredienti, così l’autore scrive un’opera godibilissima e arricchente per la nostra "fame" di conoscenza.
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