di William Faulkner
Adelphi, novembre 2022
pp. 235
€ 18, 05 (cartaceo)
€ 13,99 (ebook)
Rileggere un testo di Faulkner, in tempi di nichilismo dilagante e di facili moralismi, vuol dire avere una bussola verso una morale più alta, religiosamente laica, nell’attualizzazione (sempre relativamente ai suoi tempi, ovvero quelli in cui scriveva) che lo scrittore fa delle tematiche bibliche, riviste alla luce della ragione e dell’esempio degli uomini, e di sicuro “contro”. Succede anche in questo “Non si fruga nella polvere”, testo pubblicato nel 1948, un anno prima della sua candidatura al Nobel.
Anche se il testo in questione è un giallo atipico o come lo ha definito Massimo Onofri su Avvenire, citando gli storici del genere, “problematico”, paragonando non a caso questo genere di gialli a un filone preciso della letteratura, popolata da figure come Gadda, Sciascia e Dürrenmatt, ovvero quel genere di gialli che si ripropongono di utilizzare la detection come strumento per indagare il reale.
Nello stesso tempo, Faulkner utilizza questa tipologia di giallo, appassionato com’è di letteratura russa e in particolare di Dostoevskij, come esempio paradigmatico di un certo modo di fare letteratura di ogni genere, utilizzando infine solo l’impalcatura del poliziesco per riflettere sui comportamenti degli uomini e sulle loro debolezze.
Faulkner ci offre una possibile idea di mondo com’è e come dovrebbe essere, e queste coordinate si costruiscono attraverso il flusso di coscienza dei personaggi, che ragionano in primis con loro stessi, sull’opportunità o meno di stare dalla propria parte o dalla parte dell’altro. È quello che succede a Charles detto anche Chick, che nella prima parte del libro è un giovane bianco risentito, per il comportamento troppo “da bianco” di un nero. Ma presto cambierà idea
Perché questo lo aveva già superato da tempo quando quel qualcosa - qualunque cosa fosse - lo aveva trattenuto cinque minuti prima a guardare oltre l’ampio, quasi insuperabile abisso tra lui e il vecchio negro assassino e aveva visto, sentito Lucas dirgli qualcosa non perché era lui, Charles Mallison junior, né perché aveva mangiato le sue verdure e si era scaldato al suo fuoco, ma perché solo lui di tutti i bianchi con cui Lucas avrebbe avuto modo di parlare da quel momento a quando avrebbero potuto trascinarlo fuori dalla cella e giù per le scale attaccato a una corda, avrebbe ascoltato la muta sfiduciata urgenza dei suoi occhi. P.70
La lunga riflessione che accompagna la narrazione lungo tutto il romanzo, si serve di un flusso di coscienza, che interrompe la parte narrativa per diventare narrazione ragionata sul proprio mondo e sulle ingiustizie che contiene, e su quanto siamo portati a perpetrarle, perché così ci hanno insegnato. Altra particolarità è quella del linguaggio, crudo, difficile, spesso indigesto, che di certo non ammicca alla semplificazione, come ahimè fa tanta letteratura contemporanea, abituando i lettori al semplice e non stimolandoli sulla complessità.
Nei fatti, Luca Beauchamp è accusato di aver ucciso un bianco, in una contea in cui è un crimine già essere un nero e credere di meritare rispetto, e quindi rischia il linciaggio. A difenderlo interverrà quel Charles Mallison junior, lo stesso ragazzo indispettito dall’aiuto che Beauchamp gli ha dato già, in una occasione precedente, quattro anni prima, e che lui pensava di poter ricompensare con del denaro. Il rifiuto dello stesso Beauchamp, di ricevere delle monete, da una parte lo fa sentire stupido e debole, dall’altro lo rende fastidiosamente in debito. Proprio quando pensa di aver saldato il conto, ecco che Beauchamp si caccia in guai seri, prendendo a fucilate di schiena un bianco, in pieno giorno e chiedendo aiuto all’unico in grado di comprenderlo.
Ambientato nella contea di Yoknapatawpha, di pura invenzione faulkneriana, ma che è la summa di tutti i luoghi che Faulkner conosce e ha vissuto già da bambino, nel Mississipi e già presente in altri romanzi, già nel titolo, è emblematico per quella “polvere” che sarebbe indicativa dei luoghi polverosi in cui finisce la storia, questa come tante altre, ovvero i tribunali. Anche se esiste un’altra interpretazione, che sarebbe frutto di un errore di traduzione, come la prima traduttrice per Einaudi dell’opera, Fernanda Pivano, fece più volte notare, per l’ambiguità, nel titolo originale della parola “dust”. Il termine, più che indicare la polvere, indicherebbe il crepuscolo, nella versione dialettizzata del termine, ovvero “dusk”. Un crepuscolo di idee, di illusioni di grandi valori, quelli proclamati dalle ideologie della Guerra Civile.
Il crepuscolo o la polvere sono due bellissime percezioni che aleggiano su tutto il romanzo, il primo è relativo metaforicamente agli ideali ma anche alla percezione di luce cupa, scura, crepuscolare che si percepisce lungo tutta la vicenda, mentre la polvere è anche quella che bisogna sollevare, per arrivare al fondo di questa vicenda così stagnante, in cui la verità verrà a galla proprio scoperchiando tombe e riesumando cadaveri.
Samantha Viva