L'infinito istante. Saggio sulla fotografia
di Geoff Dyer
Il Saggiatore, 2022
Traduzione di Maria Virdis
pp. 392
€ 25,00 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)
Per Henry Cartier-Bresson la fotografia è «un modo per comprendere». Questo libro è la storia del mio tentativo di comprendere il mezzo che egli padroneggiava. (p. 18)
All'inizio si è un po' spiazzati dal metodo entropico con cui Dyer inizia a dipanare i fili del suo discorso, un rincorrere i temi attorno ai quali i grandi fotografi si sono inconsapevolmente o consapevolmente raccolti: panchine, cappelli, mani, strade, finestre, negozi di barbieri, fisarmonicisti. Dyer indaga sul dialogo che i fotografi hanno intessuto intorno a questi temi, e le fotografie allegate al testo ci indicano a volte davvero che molte fotografie appaiono come variazioni su tema, incontri e commenti fra lfred Stieglitz, Paul Strand, Walker Evans, André Kertész, Dorothea Lange, Diane Arbus e William Eggleston. Non è un libro di storia della fotografia o tantomeno di tecnica fotografica, ma io lo chiamerei di "filosofia della fotografia", soprattutto nell'ultima parte del testo, quando Dyer scomoda Roland Barthes, mettendo in epigrafe la frase Quella cosa vagamente spaventosa che c'è in ogni fotografia.
Questa cosa vagamente spaventosa è la morte o, ancora più precisamente, il fluire del tempo, la scomparsa di ciò che è. L'infinito istante è quindi la volontà titanica di fissare ciò che è, di eternizzarlo; tuttavia, a volte l'effetto è proprio l'opposto:
È stata spesso sottolineata la capacità unica della fotografia di mantenere in vita e riportare indietro i morti. Per Barthes questo - «il ritorno del morto» - è quello che di terribile noi vediamo in tutte le fotografie. (p. 347)
Corredato da un interessante impianto iconografico e da una vasta bibliografia, L'infinito istante è un saggio che ci insegna a guardare attraverso un'arte, per parlare non solo di essa, ma della maniera in cui noi, spettatori/attori di questo mondo, proviamo a testimoniarlo e a descriverlo.
Deborah Donato
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