I nostri sogni sono l’immagine del possibile. Intensità e ironia nell’interessante raccolta di racconti di André Kaminski: "Il terremoto di Agadir"


 


Il terremoto di Agadir
di André Kaminski
Acquario edizioni, dicembre 2022

Traduzione a cura di Amina Pandolfi

pp. 220
€ 14,25 (cartaceo)

Il 29 febbraio 1960 ad Agadir il mondo sprofondò. Senza di me, però, e senza Mademoiselle Mottier, arrivata anche lei troppo tardi. Per la verità noi arriviamo per lo più quando tutto è finito. Noi corriamo sopra i campi di battaglia, sopra le rovine della storia, io con il microfono, Mademoiselle Mottier con la cassettina del pronto soccorso. Discreti, modesti, e con la carta di credito della Société des Banques Suisses. Io come reporter della televisione, Mademoiselle Mottier come infermiera della Croce Rossa. Due pietosi samaritani, le inevitabili comparse di tutte le grandi catastrofi del nostro tempo. (p. 149)

Quella di André Kaminski è una penna davvero interessante: asciutta, a volte dal ritmo spezzato, altre volte capace di volute descrittive, evocative e mai pompose, ma sicuramente efficaci. Lo scrittore, ebreo polacco-ucraino, direttore di programmi artistici per la televisione polacca e svizzera, ha vissuto nei paesi dell’Africa settentrionale girando documentari tra gli anni ‘50 e ‘60.

L’opera Il terremoto di Agadir,  è una raccolta di sette interessanti racconti, dove il surreale si intreccia inesorabilmente alla realtà della storia, in cui emergono due Paesi, Algeria e Marocco, devastati in seguito alla guerra di liberazione dalla dominazione francese. Un territorio deturpato dallo sfruttamento da rapina, un popolo sbandato e incredulo che prova a rimettersi in piedi.
La voce narrante è sempre la stessa: con narrazione in terza persona, talvolta in prima, l’alter ego dello scrittore, regista e direttore televisivo, ci narra in ciascun racconto le storie di personaggi, ognuno straordinario a modo suo, che lasciano il segno. Sono uomini e donne che portano l’abisso nel cuore, l’incredulità, lo shock di chi si è trovato da un giorno all’altro ridotto in schiavitù, saccheggiato e abbandonato e poi lasciato libero, ma orfano del colonialismo.
In questo libro l’autore dà prova della sua penna duttile e variegata: racconti dove prevalgono sequenze dialogate a ritmo serrato (Piltz), in cui si affaccia un “realismo magico” sui generis (La signora Zaui). Nel presentare i suoi personaggi, Kaminski non si perde in giri di parole, ma, con l’ironia che pervade tutto il libro, ce li “piazza” letteralmente sulla pagina quasi ex abrupto, senza tanti convenevoli e con pochi, eloquentissimi tratteggi di penna.
Portava il velo. Allah solo sa perché. Io non indovinerò mai quel che accadeva dietro quel velo. Le donne di Algeri cominciavano a liberarsi. Non volevano più ubbidire ai mariti, cominciavano a camminare a testa alta, a viso nudo. La lunga notte era finita. La signora Zaui la pensava diversamente. Pensava molto, suppongo, e parlava poco. Solo di tanto in tanto faceva un’osservazione, breve e tagliente, ma ogni volta colpiva nel segno. Un giorno guardò fuori della finestra e di punto in bianco dichiarò: «Chi si toglie il velo non ha niente da nascondere». (p. 38)

Una donna forte e misteriosa, sola. La signora Zaiu porta con sé un inquietante segreto.

Il libro si apre ad un ventaglio di tematiche, profondamente umane, e sullo sfondo campeggiano un’Algeria e un Marocco che cambiano, che si aprono arrancando al vento della modernizzazione e della tecnologia. Il nostro narratore è in cerca di attori e di nuovi aiuto-regista. Da quando sono andati via i francesi, gli studi di registrazione sono deserti e non c’è nessuno in grado di trasmettere programmi televisivi, ma, ad un certo punto accade l’impossibile.

Bertholet era sicuro che quella sera non ci sarebbe stato alcun programma. Dei seicento impiegati, ne erano rimasti soltanto una dozzina: due funzionari subalterni, un cassiere sordo, il gobbo Mersug, sette fattorini e Moaki. Ma Moaki  non conta perché è scemo. In realtà Moaki era il più furbo buono a nulla che avessero mai avuto tra di loro. (…) Erano le cinque del pomeriggio quando entrò nella sala dei bottoni e, nel buio più completo, cominciò febbrilmente a premere tutti i tasti, uno dopo l’altro, fino a quando all’improvviso un lampo squarciò l’oscurità. Si accesero lampadine verdi. I ventilatori cominciarono a ronzare. Luci al neon tremolarono. Era incredibile. Moaki aveva rimesso in funzione la televisione. (pp. 22-23)

Siamo nel racconto La vittoria sulla forza di gravità, quando Moaki rimette in moto dal nulla gli ingranaggi della televisione e chiama a raccolta tutti gli algerini, vecchi e giovani, sani e storpi, ad improvvisare una festa in strada da trasmettere a tutte le tv del Paese e Kaminski mette in bocca ad uno dei personaggi la storia commovente del povero Gashgaj, un «nessuno, che non aveva mai toccato la pelle di una donna. Come me, pensava sempre e soltanto alla tenerezza che nessuno voleva dargli» (p. 29): una storia dentro un’altra storia, una più intensa e significativa dell’altra.
Nonostante la brevità di ciascuno dei racconti, lo stile dell’autore permette di comunicarci l’essenziale e affinarlo alla perfezione: lo scopo è quello di farci riflettere sulla sofferenza, sull’amore, sui disastri, umani o naturali, tutto condito però col piacevole gusto dell’ironia che rende gli scritti godibilissimi.

Il racconto che dà il titolo all’opera, Il terremoto di Agadir, si ambienta nella città marocchina distrutta da un terribile terremoto del 1967 che ha ucciso oltre tremila persone, contiene la curiosa storia di Ali, che confonde la realtà col sogno ed è convinto di essere morto, tuttavia si lascia ancora abbindolare dai piaceri del vino e della carne. 

Sette racconti, sette personaggi indimenticabili, che in poche pagine colpiscono il lettore per la loro storia e per il loro carattere. L’iniziale caleidoscopio di colori, atmosfere e odori che comunicano al lettore diverse sensazioni lascia poi ampio spazio alla riflessione sul dramma umano della questione coloniale.

Marianna Inserra