Lo scorso 10 gennaio è uscito per Mondadori La gioia avvenire, romanzo d'esordio di Stella Poli, a cui abbiamo dedicato un'attenta recensione. Dopo averne parlato in quella sede, abbiamo avuto il desiderio di approfondire alcuni aspetti del libro e abbiamo pensato di porre qualche domanda all'autrice, che ringraziamo per la disponibilità.
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Sappiamo che questo romanzo è giunto finalista alla penultima edizione del Premio Calvino, per cui la prima domanda è più che altro una curiosità legata alla genesi di questo percorso: la stesura dell'opera è stata in qualche modo legata alla decisione di partecipare al concorso, oppure avevi già il libro nel cassetto?
È un libro a cui lavoro da anni, è stato a lungo un racconto breve, brevissimo, che non pensavo nemmeno diventasse altro: no, non l’ho scritto per il Calvino. Anche se, senz’altro, il Calvino è stato uno snodo fondamentale, poi.
Proprio rispetto alla stesura, sarebbe molto interessante conoscere qualcosa di più a riguardo: hai iniziato a scrivere avendo già in testa un chiaro sviluppo narrativo oppure ti sei lasciata guidare dal prosieguo della storia?
No, non avevo in testa quasi nulla, all’inizio. Le prime pagine che ho scritto erano una prima versione del racconto di Nadia. L’intreccio (peraltro appena accennato) è venuto poi, riflettendo più sul montaggio, sull’incastonare i piani.
Continuiamo con una curiosità: hai qualche abitudine particolare che ripeti nelle tue sessioni di scrittura? Un rito, magari anche scaramantico, oppure un luogo preciso, sempre lo stesso, in cui ti rifugi a scrivere?
Spesso prima di iniziare a scrivere devo fare qualcosa all’aperto: camminare, nuotare, stare in un bosco. Ogni tanto succede che mi venga qualche idea sotto la doccia o in piscina. Però poi scrivo ovunque, a volte in treno, a volte alla scrivania, a volte su dei quadernetti colorati. A volte la sera tardi, a volte no.
Il titolo è, senza dubbio, particolarmente evocativo: puoi dirci qualcosa di più riguardo ai motivi che ti hanno portato a scegliere proprio questo verso del poeta Franco Fortini? In che modo hai sentito - se hai pensato così - che potesse essere particolarmente rappresentativo del contenuto?
La gioia avvenire è il titolo di una poesia che Fortini scrive a guerra appena conclusa. Parla di Resistenza, di regime fascista, del fatto che dimenticare sarebbe «mascherato di rivoluzione», fintamente risolutivo, ma invece, si continuerà a celebrare, quasi, quel prima, perché non lo si può perdere: «perché ogni cosa nasce da quella soltanto». È un titolo rappresentativo, sì, ma traslato: anche nel romanzo si parla di costruirsi attorno a qualcosa che non si riesce a elidere e che forse, pure, non si può (o non si deve) rimuovere. Mi ha conquistata quell’avvenire univerbato, che stesse lì a dire futuro, e quel presagio di gioia, postulata poi, con una certa «violenta fiducia».
Personalmente, avevo già letto diversi tuoi racconti e mi auguravo che prima o poi arrivasse un romanzo, per cui conoscevo già la tua scrittura così peculiare. Rispetto a questo, due domande sorgono spontanee: segui un procedimento particolare ed è una precisa scelta stilistica oppure ti viene naturale? Come descriveresti la tua scrittura?
Mi viene naturale, per lo più. Penso che ciascuno di noi abbia un “passo sintattico” che lo contraddistingue – c’entra con il ritmo delle nostre frasi, spesso. Il mio è asciutto, a volte slogato, con alcune infrazioni del parlato, una serie di intemperanze. Ho una scrittura ellittica, spesso asciugata ulteriormente in seconda battuta.
Creare un racconto o comporre un romanzo è profondamente diverso: cosa ti avvince di più dell’una e dell’altra dimensione di scrittura?
Del romanzo mi atterriva la costruzione, la struttura. Mi sono sempre confrontata solo con misure brevi o brevissime, con altri equilibri, altri pesi narrativi. In qualche modo, ho risolto creando un romanzo che si regge sul montaggio di tessere brevi, un incastro di schegge.
Sempre rispetto ai racconti pubblicati sulle diverse riviste: che ruolo hanno avuto queste esperienze nel percorso che ti ha portato verso il tuo esordio narrativo?
Voglio bene a molte riviste con cui ho collaborato. Ho trovato spesso editor puntuali e talentuosi. È importante incontrare qualcuno che ti “tiri fuori”, a volte con imperio, da alcuni tic linguistici o sbavature di tono, perché il rischio è richiudersi un idioletto addosso, farci la tana, starci comodi.
Voglio bene anche a quelle che hanno rifiutato i racconti venuti male: a volte vengono male, vero, meglio (continuare a) accorgersene.
All'inizio del libro, si legge "Una cosa raccontata è tracotante: esige, estorce quasi". Senza fare spoiler (e invitando coloro che non hanno ancora letto il letto a rimediare al più presto), tale affermazione è chiaramente collegata al contenuto dell'opera, tuttavia, in questa intervista, potremmo in qualche modo collegarla alla letteratura, alla scrittura, più in generale?
Credo che possa valere in molti contesti, anche con racconti-rivelazioni meno nodali. Molte parole cercano solo di innescare una reazione, nel nostro interlocutore, che, in qualche modo ci (e le) validi.
Come ho già avuto modo di dire nella recensione, si tratta di un'opera di esordio, con cui ti affacci per la prima volta nel mondo editoriale con un romanzo: che sensazioni ti provoca questo che, di fatto, è un bellissimo riconoscimento?
Mi faceva molta paura, a tratti, stare (“approdare”) nel mondo. Devo dire che le reazioni mi hanno via via rassicurata.
Chiudiamo con una domanda un po' particolare: come presenteresti il tuo libro a chi non l'ha ancora letto?
Corto! – No, scherzo: è un libro inquieto, non un libro a tesi. Parla di cose che mi sembrano importanti (la giustizia, la nostra comprensione del reale, il consenso, tentativi di felicità e bilanciamenti), ma rasoterra, o quasi.
Concludiamo, rinnovando i ringraziamenti a Stella Poli.
Intervista a cura di Valentina Zinnà
Foto presente nell'header è stata riprodotta su autorizzazione della casa editrice.
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