Il delicato ritratto di una maternità che repelle: "Pizza girl" di Jean Kyoung Frazier per Blackie Edizioni


Pizza girl
di Jean Kyoung Frazier
Blackie Edizioni, gennaio 2023

Traduzione di Monica Nastasi

pp. 208
€ 18,90 (cartaceo)


«Si chiamava Jenny Hauser e tutti i mercoledì mettevo dei cetriolini sottaceto sulla sua pizza.»
Si apre e chiude così questo bel romanzo di Jean Kyoung Frazier, autrice metà coreana metà americana, al suo esordio con "Pizza girl" pubblicato in Italia da Blackie Edizioni. 
Leggiamo di una ragazza giovanissima di nome Jane (forse) incinta e senza un'apparente scopo nella vita, se non quello di prendere ordinazioni e consegnare pizze nella città di Los Angeles. Vive con sua mamma, coreana, e con il fidanzato Billy, il classico bravo ragazzo semplicemente perfetto, tanto perfetto da risultare quasi respingente. 
La sua routine noiosa e deprimente subisce una brusca virata quando da Eddie's, la pizzeria in cui lavora la nostra protagonista, chiama una donna disperata che la scongiura di mettere dei cetriolini sottaceto sulla pizza del figlio. Il loro primo incontro, davanti alla sua porta di casa, è un fulmine a ciel sereno: Jane ne cade perdutamente innamorata.
Da quel momento, la donna, Jenny Hauser, diventerà il chiodo fisso e il tormento di Jane, penserà a lei di giorno e di notte: sarà croce e delizia, rappresenterà l'appiglio a cui aggrapparsi per smettere di pensare a quel bambino che le cresce dentro e che non vuole.
Non sapevo se la pancia si vedesse già e stavo facendo del mio meglio per non scoprirlo. La mattina, prima di fare la doccia, mi spogliavo dando le spalle allo specchio. Quando camminavo tenevo la stesa alta e guardavo dritto davanti a me, evitando di abbassare lo sguardo. Quando pensavo al giorno in cui non sarei più entrata nei miei vestiti, i prudevano i palmi. (p. 31)
Il fulcro infatti della trama è il sentimento di rifiuto che Jane sente per quel figlio che nascerà: non si tratta tanto dell'essere rimasta incinta così giovane, ma di un semplice assunto, ovvero quello di non sentire alcun affetto o attaccamento nei confronti della creatura. Quando sua madre e Billy le parlano del bambino, cambia discorso; quando pensa alla sua pancia, suda freddo; non le interessano i vestitini, i nomi, le pappine, l'immagine stessa del feto, che non desidera nemmeno guardare sullo schermo dell'ecografo. Jane non si sente a suo agio, ma non lo dice a nessuno, solo a Jenny.
Era facilissimo chiudere gli occhi e vederli: chi non riuscivo a far apparire in quelle scene ero io. Nessun passato di verdura, aeroplanino di pappine, gattonare, suoni roboanti, piegare vestiti, leggere: non c'ero mai su quel divano, rannicchiata tra loro. Li guardavo, con un grosso boccone di pollo e burro d'arachidi in bocca, e mi domandavo se avrei passato i successivi diciotto anni lì in piedi accanto al frigo. (p. 52)
Questa repulsione annega nel sentimento totalizzante che Jane prova per Jenny (non credo sia una coincidenza che l'autrice si chiami Jean, probabilmente c'è dell'autobiografia in qualche passaggio): aspetterà con ansia le sue telefonate e il suo ordine di pizza coi cetriolini, cercherà ansiosamente ogni scusa pur di vederla, si perderà con la mente immaginando mille scenari irrealizzabili in cui loro due sono felici insieme, da qualche parte, qualsiasi parte, pur di non soffermarsi sul suo triste presente. Su binari paralleli, scoperti solo alla fine però, anche Billy e sua madre sveleranno i propri demoni, a testimonianza di quanto l'apparenza possa ingannare.
Emerge inoltre un rapporto molto complicato con suo padre morto un anno prima dell'inizio di questa storia, che condizionerà molto Jane nelle sue scelte, soprattutto nell'infelice decisione di cominciare a bere troppo, proprio come lui.
Il suo è un mondo di dolore silenzioso, d'insofferenza, solo Jenny pare portarvi un po' di calore e questo, nel lettore, fa sbocciare il tremendo sospetto che quando le cose si rovineranno, perché la storia ci porta in quella direzione, Jane crollerà in mille pezzi. Accade infatti, in un modo totalmente inaspettato e dai risvolti neanche troppo salvifici.
Camminai fino alla porta di Jenny con uno slancio insolito. Sentivo che se quello slancio fosse stato abituale, la mia vita avrebbe potuto essere diversa. (p. 150)
Le ultime pagine sono quasi un vortice silente di follia. D'altra parte, dove può mai dirigersi una ragazza di diciotto anni, incinta, depressa, probabilmente alcolizzata e innamorata di una persona che non è il padre di suo figlio? L'autrice non indora la pillola: Jane non si sente madre, non prova alcun sentimento accudente e non fa nulla per nasconderlo.
Vero è che non lo dice ad alta voce, ma nemmeno si sforza di sorridere per finta. 
Per questo ho molto apprezzato la storia di Jane: scommetto che alcune donne si sono sentite così, anche per un millesimo di secondo, durante la loro attesa. Il suo è un modo per depotenziare quell'universo tutto fiocchetti, peluche e sorrisi forzati che gira intorno a una nascita, anche una non desiderata. Si sente spesso, soprattutto oggi, che non è una colpa formulare certi pensieri, provare certi sentimenti, che una futura madre ha tutto il diritto di non desiderare di esserlo, prima, durante e anche dopo la nascita. Questo non vuol dire che sarà un cattivo genitore, ma che capita di avere qualche attimo di sconforto, di pentimento, come Jane. 
E come Jenny: anche lei, madre di un bambino di otto anni, non verrà rappresentata come la classica mamma perfetta e super efficiente, ma piuttosto come un essere umano in difficoltà, in una fase della propria vita in cui guardare al figlio non la fa stare meglio. 
Scorretto? Bestiale? No, non lo credo, è semplicemente possibile e l'autrice ha trovato il modo di dirlo.
Lo stile è colloquiale ma non scialbo, dalle parole dell'autrice ci viene dipinta una protagonista carismatica pur con tutti i suoi difetti - è disordinata, senza alcun talento apparente, rabbiosa, mediocre per farla breve - una ragazza normale in una situazione più grande di lei. 
Maturo al punto giusto, si percepisce che è stato scritto da una donna giovane, ma estremamente delicato, soprattutto considerate le tematiche trattate.
Lo consiglio a occhi chiusi: è vero che sempre più spesso i romanzi esordienti ci parlano di storie di persone depresse, inermi, poco reattive, ma in questo caso Jane è talmente umana, è talmente come noi, che non le si può chiudere la porta in faccia.

Deborah D'Addetta