pp. 128
€ 16 (cartaceo)
Prendete Garcia Marquez e Mariana Enriquez, spostate Macondo e la selva argentina in Galizia, elevate il Culto dell'Ombra all'ennesima potenza ed ecco che avrete una piccola idea di ciò che è questo libro, edito da
Safarà Editore e scritto da
Julian Rios, autore, ahimè, semisconosciuto in Italia.
Rios è uno scrittore spagnolo, tra i più influenti autori contemporanei, nato a Vigo nel 1941, conosciuto forse più per aver scritto a quattro mani col poeta messicano Octavio Paz.
Bruno Arpaia, il suo traduttore, definisce "Corteo di ombre " un "romanzo di racconti": per l'esattezza nove, legati da un'ambientazione comune, Tamoga, piccola città nebulosa e acquitrinosa, e alcuni personaggi che ogni tanto ricompaiono.
Ho finito di enumerargli i piaceri di Tamoga con la sensazione di vendicarmi e che ormai iniziasse a sentire il peso delle ore, quanto può essere deprimente, quanto può essere lunga, una notte in questo purgatorio. (p. 24)
Rimasto a lungo confinato in un cassetto e poi ripescato molti anni dopo, questo libro è un insieme di storie misteriose, sepolcrali quasi, che ci trascina in un luogo sperduto della Galizia fatto di cerimonie, superstizioni, dicerie, pettegolezzi e storie di uomini e donne sempre in bilico tra la vita e la morte. Tutto sembra sempre bagnaticcio, vellutato, pronto a finire nell'orrore, come uno di quei film che fanno presagire, tra una scena e l'altra, il disastro imminente. Ci si sente sull'orlo di un burrone, e come quando qualcosa ci repelle e ci attira al tempo stesso, evitiamo di guardare, ma poi lasciamo cadere gli occhi: nella narrazione, gli abitanti e soprattutto gli ospiti e i viaggiatori che hanno la sfortuna di mettere piede a Tamoga, ci finiscono con tutte le scarpe, in quel burrone.
L'autore, con grande maestria, ci conduce senza paura e senza abbellimenti inutili all'interno delle dinamiche del paese, all'interno delle case polverose che paiono tumuli più che abitazioni vive, in ville e catapecchie che nascondono i segreti più inconfessabili.
Come ci dice il titolo, piuttosto rivelatore, si tratta difatti di una processione di ombre: fantasmi che sembrano uomini e uomini che sembrano fantasmi, tanto simili da non riuscire a distinguerli, che lottano per tenersi stretti alla vita o che si abbandonano volontariamente alla morte.
Avremo quindi un racconto che ci parla di un viaggiatore sconosciuto, scomparso per mistero e legato a una donna che pare essere sua cognata; e una caccia in un bosco, un inseguimento che spinge la morte a correre; il racconto di una passione malata, corrotta, e quello di un amore puro, ma rovinato dal tradimento infame; come pure leggeremo un meraviglioso racconto in seconda persona, espediente sempre piuttosto raro da incontrare, che seguirà i passi di un morto, o di un fantasma? e la storia di un uomo repellente, che nella sua forma mostruosa e nella sua mente senza logica troverà la miccia per compiere ciò che non si può dire.
Ciò che emerge, oltre a uno stile che maneggia lo
show don't tell in maniera impeccabile, è
l'estetica dell'ombra, in modo quasi votivo a ciò che
Tanizaki sostiene in
Libro d'ombra: Rios parla per attributi come "oscuro", "offuscato", "cotonoso", "polveroso", "vellutato", "plumbeo". Nella sua narrazione c'è una scelta piuttosto netta di escludere parole o aggettivi che possano ricondurre alla luce, all'abbagliamento, al candore, tutto è invischiato in un fango appiccicoso che sporca e ingoia ogni cosa, cose, persone, sentimenti, buoni propositi.
Dopo pranzo si sedeva su una poltrona di velluto, accanto alla finestra, fin quando non faceva buio. Silenziosa, con gesti gravi e tranquilli, disponeva i ritratti sul tavolino nell'ordine meticoloso di un solitario, con la destrezza solenne di una cartomante. Combinava immagini, le confrontava, univa i volti e poi li separava. Era una cerimonia nostalgica. (p. 35)
Nonostante la disgrazia alleggi sulle vite degli abitanti di Tamoga, uno dei moventi scatenanti la follia sembra essere il sentimento più stridente di tutti: l'amore, o meglio, la passione. Che sia in termini erotici o d'ideali o di saldi principi, Corteo di ombre mette in fila i suoi personaggi dietro il feretro di Eros, costringendoli ad accettare un destino che non hanno scelto.
Lo stile di Rios è poetico, ricco, evocativo e, seppur generoso in dettagli, ha il pregio di tacere laddove si nasconde il mistero, lasciandoci immaginare o indovinare.
Questo libro più che una perla pare essere una scheggia d'onice, tenebrosa ma irresistibile. Vogliamo saperne di più, vogliamo conoscere tutti i segreti, infiltrarci in ogni casa, in ogni piega delle tenebre, seppur spaventati da ciò che potremmo trovare. Si ha quasi voglia di visitarla questa Tamoga, ma forse faremmo l'errore di quelli venuti prima di noi, quelli che hanno provato lo stesso impulso e che, da lì, non sono più usciti.
Lo consiglio agli amanti di Marquez, di Edgar Allan Poe, di Lovecraft, e a chi ama il racconti brevi ma intensissimi che si fanno ricordare anche dopo aver chiuso le pagine.
Deborah D'Addetta