Questo libro è dedicato con amore a tutti quelli che hanno vissuto e che sono morti negli O’Deavaney Gardens, e con speranza a tutti quelli che sono ancora lì.
Palazzi che sembrano casermoni abbandonati, grigi marroni pieni di scritte, con lunghi ballatoi cui si affacciano i piccoli appartamenti costruiti per loro. Ma loro chi sono? Quelli che la società considera reietti. Siamo alla periferia di Dublino, ma potremmo essere ovunque, l'esempio più vicino a me è Napoli, con le immagini delle vele che per anno hanno riempito telegiornali e immaginari nel mondo. A Dublino nel 2018 i palazzi sono stati buttati giù dalle ruspe, due anni dopo l'uscita del libro, insieme a chi ci ha vissuto e chi ci è morto.
Casa mia invece stava su uno dei ballatoi, dove si condivideva una lunga balconata con i vicini. C'erano vicini da tutte le parti: sopra, sotto, a destra, a sinistra. C'erano sempre degli uomini loschi con la barba, i corridoi erano putridi, le tende sudicie non venivano lavate da anni e alcune finestre erano rotte. C'erano cabine grigie e striminzite, in cemento e con la porta di legno, dove venivano riposte bici e passeggini, alcune erano diventate delle piccionaie, altre dei posti per farsi le canne e altre ancora erano stanzette per le scopate.
Ci sono i palazzi di serie A e di serie B: quelli di serie A vengono chiamati Palazzi Reali perché hanno il balcone privato. E poi ci sono i blocchi, un po' come in un carcere di massima sicurezza. Ogni palazzo fa nucleo a sé, e sportarsi sembra quasi viaggiare per chi abita lì, anche se sono pochi metri. Ogni palazzo ha le proprie abitudini, i propri odori e i propri suoni. È questo che ho avvertito con insistenza: il brulicare delle vite in questo ecosistema creato su carta ma reale (Karl Parkinson ci ha vissuto davvero). Poco importa quanto le persone e gli eventi facciano parte del vissuto dell'autore, quanto siano racconti riportati o invenzioni traslate dalla realtà. Tutto rientra nella categoria del possibile.
Lo spezzarsi delle ossa.
Il pianto dei bambini.
Il latrato dei cani.
I canti e le urla degli ubriaconi.
Le filastrocche.
Le urla dei bambini.
I petardi.
La musica.
La cena in tavola.
Le voci delle sirene.
I giochi di strada.
Il suono di una chitarra scordata, smorzato dal vento triste di Dublino.
Penso alla nostra iper sensibilità ai rumori, ai vicini: uno sciacquone, un litigio, la tv a volume troppo alto. Fastidi di altre vite che il più delle volte non ci riguardano, non ci interessano, sono di troppo. Negli O'Deavaney invece tutto questo è un segno di vita, di sopravvivenza in alcuni casi. Di vicinanza amici rispetto contrasto legge non scritta. Di bellezza che sfugge ai canoni: una palla sgonfia sull'asfalto, bambini che si rincorrono, amici che ridono passandosi una canna, ragazze che si preparano per uscire, birre vuote sul marciapiedi.
Di bellezza e rumori della musica, che in questo libro diventa
una parte fondamentale della crescita di alcune voci di questo romanzo.
Chitarre strimpellate, grandi musicisti che nessuno conosce, band che nascono e
muoiono alla velocità di una bevuta o una fumata. Musica che diventa il modo di
esprimersi, di gridare, di raccontare se stessi. Musica che per Kenny diventa
sempre più scrittura, di canzoni prima di poesie poi (Karl è oggi un famoso
performer di letteratura dal vivo).
Mi rendo conto che leggerete pensieri forse sconnessi ma
credo che questo sia un libro che va al di là della storia, in fondo semplice.
Ripensandoci e scrivendo, o scrivendo e ripensandoci mi sono resa conto di
quanti spunti possano nascere da alcune immagini e dalla scrittura poetica cruda
lineare di Karl. Per dare qualche elemento in più posso dire che è un romanzo
di deformazione, dei corpi, dei pensieri, delle azioni, dei sogni. Il
personaggio principale, Kenny, lo seguiamo da bambino ad adolescente e poi
adulto: lo incontriamo bambino che di notte vola sul suo letto raggiungendo un
luogo tutto viola con un albero, che parla con un'ape che ricorda un po' il
grillo parlante di Pinocchio, che vede le banshee sul davanzale della finestra;
conosciamo la sua vivacità, la sua famiglia disfunzionale, gli amici che vanno
e vengono, le prime cotte, le prime droghe, le prime bevute, la scoperta della
musica e della scrittura. Il passaggio dal bambino all'adolescente, coincidente
con la morte del padre, è reso dall'appiattimento dell'immaginazione, della
fantasia che riesce a recuperare solo con la droga e la letteratura. A lui si
alternano le voci dei palazzi: voci confuse o più chiare, persone di passaggio
o amici. Scopriamo la violenza nelle famiglie, il bisogno di droga che spesso
non dà tregua. Ordinarietà che noi non conosciamo. Ma è un romanzo di
deformazione: alterazione di corpi, di immagini, di visioni, di desideri, di
legami, di crescita, di giusto e sbagliato. Deformazione di tutto quello che si
considera ordinariamente formativo.
Quello che rimane, che si porta fino alla maturità, sono i
melmosi: invisibili a chiunque, le zone nere dell'uomo. Forse rappresentano
quelli da cui tenersi alla larga, tossici violenti criminali, per me sono invece
qualcosa di incorporeo ma palpabile nell'aria di quei palazzi, tra quelle
scale, su quell'asfalto. Puoi provare a non respirarla quando ne senti la
consistenza intorno, ma dura poco la capacità di rimanere in apnea, e scappare
quasi mai è possibile.
Siamo le urla di un incubo. Melma! Spazzatura! Fango! Minori violentati!
Siamo il gelo nelle stanze. Miseria! Morte! Stupro! Violenza!
Ti facciamo venire voglia di bere. Droga! Stronzate! Malattia! Terrore!
[…]
Le persone che amano e che pensano sono un pericolo per noi.
L'amore e il pensiero consapevole sono una scelta difficile negli O'Deavaney: amare significa darsi una svegliata, il tempo va speso nel migliore dei modi e non perso dietro a trip da funghetti o risse. L'amore è dedicarsi a un progetto comune, proteggersi, vivere e non sopravvivere. Pensare significa avere piena coscienza di sé e di dove si vive, di quello che si fa, delle possibilità oltre i palazzi. Pensare è sempre stato rischioso nella storia dell'uomo perché può portare a stravolgimenti, piccole o grandi rivoluzioni anche all'interno di un microcosmo. Ritorno all'esempio di Scampia, a Napoli, e di quanto è stato fatto negli anni per rivoltare situazioni disperate e narrazioni unilaterali. Ecco perché far finta che le cose debbano andare così e non ci sia soluzione, lasciare che in questi contesti continui a vigere una legge interna è l'unico modo per evitare che qualcosa cambi: ognuno per sopravvivere si comporta come gli altri, si lascia andare ai melmosi e preserva lo status quo. Qualcuno riesce ad andarsene, altri, come Kenny (Karl) diventano la voce di chi non sa e può parlare rimanendo invischiato in quella vita, l'unica salvezza possibile senza rinnegare se stessi e la vita che ha dato e tolto, gli amici passati presenti futuri morti. Solo modo di portare a galla un mondo che non deve vergognarsi di esistere, di essere stato creato.
Viviana Calabria
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