I pezzi del passato stanno nella scatola tutti sparsi e li prendiamo a caso, li montiamo un po' come ci viene. Certo, attaccandoli in un modo o in un altro, cambia tutto. Ma ogni racconto è così: arbitrario, dunque falso. (p. 128)
È incredibile come agli scampoli di passato, a volte spezzati dal tempo, altre volte imprecisi per gli inganni della memoria, annodiamo tutto il presente e il futuro. Lo sa bene Donata Mancasciulla, la protagonista del nuovo romanzo di Paola Mastrocola, La memoria del cielo: come in un'autobiografia, è proprio lei, ormai adulta, a ripercorrere la sua infanzia. E lo fa con la delicatezza di chi si guarda indietro, reinterpreta momenti registrati nella memoria ma non compresi all'epoca, riannodando i fili in un gomitolo dai colori vivaci e, al tempo stesso, raffinati.
Non è tanto la formazione di Donata a rappresentare il motore della narrazione; è piuttosto il nucleo familiare, quel piccolo mondo ristretto tra le mura domestiche, a farsi universo intero. Se contiamo che Donata nasce da Teresa e Vincenzo dopo anni di matrimonio, quando le speranze di avere un figlio stavano per scemare, non è difficile comprendere come quella bambina sia diventata il fulcro delle loro vite. Insieme al lavoro, sia chiaro. La famiglia, infatti, si regge sul lavoro di entrambi i genitori, che hanno iniziato a lavorare fin dalla più tenera età, prendendo le distanze dalle loro famiglie d'origine, a cominciare dalla scelta di cercare casa a Torino. Teresa è una sarta fin dalla prima adolescenza ed è brava e veloce: basta contare quante sono le signore che sfilano con i vestiti in prova nella sala di casa Mancasciulla. Tutta quella eleganza non ancora perfezionata, tenuta insieme con spilli e imbastiture, viene osservata dalla piccola Donata, tenuta a salutare le clienti della madre, andando contro alla sua estrema riservatezza. Quanto a Vincenzo, l'uomo lavora alla Fiat, dove è arrivato grazie agli studi da ragioniere che ha conseguito alle scuole serali, con grandi sacrifici:
Mio padre diventò ragioniere. Quella parola se la ripeteva: ragioniere, ragioniere... Cantava e ballava, mentre la diceva, abbracciando alla vita mia madre, che non ne aveva voglia e si divincolava subito. Entrò alla Fiat Sezione Auto, impiegato in un ufficio che si occupava delle relazioni con i fornitori. Impiegato era una parola importante, allora, e non era necessario specificare esattamente: voleva dire non essere operaio. Quando andai a scuola e mi chiedevano cosa fa tuo padre, io rispondevo: l’impiegato, mettendoci fierezza. (pp. 35-36)
Concedersi le cose inutili è come fare un passo laterale e andarsene per viottolini di campagna: certo che si abbandona la strada maestra che ci porterebbe dove dobbiamo andare, ma ne ricaviamo fiori e panorami che non avremmo mai visto. Anche i fiori e i panorami sono inutili? Può darsi.È un peccato, però, non lasciare mai la strada maestra. (p. 119)
Non importava se scarabocchiavo o scrivevo, e cosa scrivevo. Scrivere è prima di tutto il piacere di un gesto. E mi faceva sentire al mio posto. Ero il principe spodestato che torna e riprende possesso del suo regno. (p. 128)
I nostri ricordi sono così ingannevoli? Imprecisi, addirittura sbagliati. Ce li portiamo tutta la vita dentro come se fossero la nostra più profonda verità, li raccontiamo come fossero tesori, e poi? Hanno la stessa sostanza della fantasia. Assomigliano alle storie che c'inventiamo, né più né meno. (p. 171)