Una famiglia americana
di Joyce Carol Oates
Saggiatore, 2023
Traduzione di Vittorio Curtoni
pp. 512
€ 20 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Per parecchio tempo di avete invidiato, poi ci avete compianto. Per parecchio tempo ci avete ammirato, poi avete pensato Bene! È quello che si meritano. (p. 11)
I Mulvaney rappresentano la classica famiglia americana borghese: un matrimonio solido, un buon patrimonio, attività propria, figli ben integrati a scuola e nella comunità fra attività sportive, aiuto nella gestione domestica, solidarietà, studio. Una famiglia americana, appunto, come dal titolo di questo romanzo del 1996 di Joyce Carol Oates, che ritorna in libreria in nuova veste grafica per Il Saggiatore che già lo pubblicava nel 2003, nell'attenta traduzione di Vittorio Curtoni. Una famiglia da ammirare, una famiglia da invidiare. Una famiglia da giudicare. E infine isolare e condannare.
Quando il male si insinua nelle loro vite, la facciata di apparente perfezione mostra inevitabilmente tutte le crepe, sempre più profonde. La notte di San Valentino del 1976 Marianne, l’unica figlia femmina, è a una festa della scuola, si ubriaca e un ragazzo abusa di lei. Stordita, sopraffatta dal senso di colpa per aver perso il controllo e convinta quindi di essersela cercata, Marianne tace con tutti quanti, rilegando l’orribile violenza subita in fondo a se stessa. Ma la famiglia viene presto a conoscenza dell’abuso: Michael, suo padre, affronta il colpevole e preda della rabbia lo colpisce ferocemente; le famiglie decidono così di non denunciare, l’abuso subito da Marianne né lo scatto violento di Michael. La ragazza viene allontanata, con la scusa di trovare pace, dimenticare. Non sarà così, ovviamente, e la distanza temporale o fisica non potrà cancellare quello che è successo, il trauma subito.
Quel male segna un punto di rottura nelle vite di tutti loro. La furia del padre si fa sempre più frequente, scivola nell’alcolismo, il lavoro va in crisi e il matrimonio con Corinne rivela tutte le sue fragilità. Mike, il fratello maggiore, si arruola volontario, nonostante le proteste della famiglia, rinunciando a una promettente carriera sportiva. Patrick, il fratello dedito allo studio e alla scienza, architetta la sua personale vendetta, arrivando a un passo da compiere un atto da cui non si può tornare indietro. Corinne, allontanata la figlia, mantiene sporadici contatti epistolari con lei, senza riuscire mai nel corso degli anni a ricucire quella distanza che si è creata tra Marianne e il padre. Judd, il figlio più piccolo e voce narrante, osserva la propria famiglia disgregarsi, un pezzo dopo l’altro, schiacciati dal peso della condanna sociale che li ha travolti.
Oates compone una storia amara, il sogno americano che si infrange di fronte alle ipocrisie del perbenismo, le incomprensioni, i sospetti e i pettegolezzi. E le fragilità di ognuno di questi individui di fronte al male. La violenza, tema ricorrente nell’opera della prolifica scrittrice statunitense, è il cuore nero di questo romanzo, la deflagrazione che stravolge ogni cosa per sempre. E che rivela tutte le inadeguatezze di una famiglia che solo in apparenza era perfetta ma che invece non riesce a reagire adeguatamente a quanto accaduto.
Noi Mulvaney saremmo morti l’uno per l’altro, però avevamo segreti l’uno per l’altro. Li abbiamo ancora. (p. 13)
I segreti che ognuno di loro custodisce, la violenza delle scelte, i silenzi e le distanze, sono l’anima nera di un romanzo amaro, strabordante di digressioni, fatti minuscoli, storie e microstorie che si intrecciano una all’altra, scatole cinesi da cui è facile venire sopraffatti. Questa minuzia talvolta eccessiva di dettagli è lo sguardo di Judd, che colleziona ogni pezzo della sua famiglia, anche il più piccolo e insignificante ricordo, di cui ha diretta memoria o meno, come unica arma per combattere la perdita, il disgregarsi di tutti loro.
Che cos’è una famiglia, dopotutto, se non ricordi? Casuali e preziosi come il contenuto del cassetto che in cucina serve da ripostiglio generico (p.12)
Si viene sopraffatti dalla narrazione, ma Oates invece non perde mai il filo della storia non importa quante digressioni segua, ha ben salde le redini del racconto. È sicuramente un romanzo ricco, poco adatto a chi come la sottoscritta è più affascinata dalla forma breve con la sua storia sommersa e l’economia di parole, ma rappresenta un efficace contraltare delle molteplici possibilità della narrazione nelle mani di un’esperta cantastorie. E, ancora, ben rappresenta anche quello stretto e indispensabile legame tra storia e modo di narrarla che sempre dovrebbero intrecciarsi l’una con l’altro.
I temi intorno a cui ruota Una famiglia americana si fondono con innumerevoli altri spunti, rimandi meta testuali, letture ed esperienze, facendone un romanzo che supera i confini temporali per rinnovarsi continuamente a poco meno di trent’anni dalla sua prima pubblicazione. L’arco narrativo copre un periodo che va dal 1976 al 1993, ma tolti alcuni riferimenti storico temporali non resta impigliato nelle maglie del tempo.
Dei numerosi spunti e temi che lo attraversano ogni lettore troverà quindi la propria chiave di lettura: tra gli altri il discorso sul crollo del mito borghese, la condanna sociale che investe questa famiglia, la distanza tra genitori e figli e il senso di sostanziale solitudine di ognuno di loro. Poco importa se alla fine troveremo un consolante happy ending o meno: l’America ha rivelato il suo cuore nero, non tutto potrà essere perdonato.
Debora Lambruschini
Social Network