Qual è il ruolo dello scrittore davanti a tanto orrore? Uwe Wittstock e il lungo inverno di stasi della scena artistica tedesca nel 1933


Febbraio 1933. L'inverno della letteratura

di Uwe Wittstock
Marsilio, 2023

Traduzione di Isabella Amico di Meane e Giovanna Targia

pp. 343
€ 15,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

“Il mese in cui si decise tutto” è il sottotitolo dell’introduzione a Febbraio 1933. L’inverno della letteratura, cronaca letteraria del giornalista, critico letterario e saggista Uwe Wittstock. Quattro settimane e due giorni per fare un passo verso il non ritorno. Il 1933, facile a dirsi, è l’anno in cui Hitler diventa cancelliere dando il via a una dittatura.

La situazione politica che ha reso possibile la presa del potere da parte di Hitler è stata descritta da storici di colore diverso da prospettive diverse. In tutte le analisi ci sono però alcuni fattori ricorrenti: la crescente influenza dei partiti estremisti che spaccava il paese. Una propaganda infuocata che esacerbava sempre più gli animi impedendo ogni compromesso. E poi l’indecisione e la debolezza del centro. Il terrore da guerra civile alimentato da destra e da sinistra. L’antisemitismo dilagante. La miseria causata dalla crisi economica mondiale. L’ascesa di regimi nazionalistici in altri paesi.

Sono di febbraio, quel febbraio, il Decreto del Presidente del Reich per la protezione del Popolo e dello Stato e il Decreto contro il tradimento del popolo tedesco e le attività sovversive, basi fondamentali per avere, poco dopo, il controllo totale sulla Germania.

Perfino riserve espresse in modo pacato sembrerebbero ora un annuncio implicito di attività politica pubblica contro il governo.

Perché sì, con una firma vengono soppressi i diritti fondamentali, nessuna libertà: o sei col regime o sei contro. Niente è apolitico. Questo cosa comporta? Il declino della scena artistica del paese, molto dinamica come si evince dal primo capitolo, “L’ultimo ballo della repubblica”, un ultimo momento di mondanità attraversato da incertezze. Uwe Wittstock, infatti, compie un interessante lavoro di ricostruzione di quei giorni, basandosi su diari, corrispondenza e testimonianze, che mettono in luce gli stravolgimenti e il clima di confusione a Berlino, da un punto di vista particolare: quello degli artisti dell’epoca che, proprio per la volontà dell’arte e dell’artista di raccontare il proprio tempo, lasciano tracce e rischiano, forse più di altri perché la loro arte è e deve essere pubblica, riconoscibile.

Cosa possono fare come scrittori? Quali strategie hanno a disposizione? Come devono comportarsi?

Domande che hanno attraversato i secoli e che ancora oggi parte della critica si pone. Qual è il ruolo dello scrittore? Cosa può fare davanti a tanto orrore?

Non è semplice dare una risposta ma, lasciando da parte le discussioni contemporanee, rifacendomi al tempo di cui è oggetto il libro e agli autori che compaiono nelle pagine del testo (la famiglia Mann, Bertolt Brecht, Alfred Döblin, Hans Fallada, Erich Maria Remarque i più famosi per noi) concordo con quanto scrive Javier Cercas nel suo Anatomia di un istante.

I romanzi servono, prima di tutto, a far vivere il tempo, a renderlo più intenso e meno comune, ma servono soprattutto a cambiare il modo di percepire del lettore; vale a dire: servono a cambiare il mondo.

La letteratura, e il teatro la musica, serve quindi a far nascere dubbi, a guardare tutto con occhio critico, a vedere le cose da più prospettive, a far cadere convinzioni. È questo che cambia il mondo, che porta una rivoluzione. Ma in una società così modificata come quella della Germania del 1933 era possibile?

Banale dirlo ma no, non era possibile esercitare la libertà di parola ed espressione se non rischiando di essere censurati o peggio, arrestati e chiusi nelle carceri, da ricordare quella di Spandau, alla mercé di chiunque, o nei campi di concentramento. Esplicativi i bollettini a fine paragrafo degli scontri, delle morti, dei feriti di quel mese incredibile. Riprendo le parole di Victor Klemperer che nel suo LTI. La lingua del Terzo Reich in una sola frase riesce a condensare la violenza esponenziale del regime nazista e come questa subì una consistente modifica, meno teatrale ma più letale. Unica salvezza: essere stranieri come Egon Erwin Kisch che verrà scarcerato ed espulso dal paese.

Al posto delle spedizioni punitive di carattere quasi privato, da sport domenicale, subentrò quasi subito la regolare e ufficiale azione di polizia, e al posto dell’olio di ricino il campo di concentramento.

Uwe Wittstock ci mette a conoscenze delle diverse reazioni di queste personalità della cultura tedesca; molti fuggirono, spesso pensando di poter tornare dopo poco tempo ma molti rimisero piede in Germania anche dopo venti anni, altri mai più. Qualcuno attese fino all’ultimo istante nella speranza di uno stravolgimento del voto, altri furono arrestati in procinto di scappare. Rispondere non era possibile né con appelli (un esempio è quello della Lega internazionale per la lotta socialista contro l’incapacità dimostrata da Spd e Kpd di unirsi per opporre resistenza al Partito nazista con tanto di firme che portò all’allontanamento di Heinrich Mann dall’Accademia prussiana delle arti) né con manifestazioni che venivano prese d’assalto dalle SA e ricevevano scarsa partecipazione per paura. Non era possibile portare in teatro le proprie opere (è l’anno dell’Opera da tre soldi di Brecht) né pubblicare nuovi scritti, neanche se erano lontani da qualsiasi ideologia, prova ne sia il primo rogo del 7 marzo fuori la Libreria popolare socialdemocratica di Dresda, a cui ne seguiranno altri.

La violenza, suggerisce Heinrich Mann, non può essere una strategia ragionevole per degli scrittori, perché in fondo non farebbe che ritorcersi contro di loro. La violenza è lo strumento di lotta dei nazisti, che possono radunare decine di migliaia di uomini delle SA. Contro forze simili, una squadra di protezione per autori e artisti avrebbe sempre la peggio. L’unica prospettiva ragionevole non sono gli scontri di strada, simili a una guerriglia urbana, ma il ritorno a condizioni politiche civili.

Tutto si riduce alle elezioni che, come ben sappiamo, non portarono alcun cambiamento ma solo una situazione più drammatica. Consideriamo anche che tutti i dirigenti di società, accademie, giornali furono sostituiti con elementi scelti dal partito, e strumento fondamentale, oltre alla violenza, fu la capacità di presentare il nazismo come unica soluzione e anche di mentire sul grande consenso, che grande non era, al regime.

È Goebbels infatti a occuparsi di ogni aspetto organizzativo. Ha anche ottenuto che venisse mandata in onda una trasmissione radiofonica della fiaccolata: tutte le emittenti del Reich vengono collegate, alcune contro la volontà dei responsabili; solo la radio bavarese riesce a sottrarsi. Lui e Göring tengono discorsi enfatici, che devono essere a loro volta trasmessi. Solo verso mezzanotte congeda gli ultimi irriducibili che resistono ancora per strada al gelo con grida di evviva rivolte a Hitler e Hindenburg. Un’imponente messinscena della propaganda. Agli occhi di Goebbels, tuttavia, non ancora abbastanza grande e riuscita. A deluderlo sono soprattutto le poche riprese fatte, povere di contrasti e spesso mosse, non sufficientemente d’effetto per i cinegiornali. Vuole infatti presentare al pubblico un vero corteo trionfale che dia l’impressione di poter travolgere tutto ciò che intralcia il suo cammino. In estate decide quindi di mettere nuovamente in scena la fiaccolata per la macchina da presa, questa volta in modo ancora più spettacolare: più uomini, più fiaccole, colonne più compatte, cineprese meglio posizionate. Ora gli uomini marciano in file larghissime e a portare le fiaccole non sono solo quelli sul margine esterno, ma praticamente tutti, di modo che il corteo assomiglia a un fiume infuocato che si riversa attraverso la porta di Brandeburgo. Se si guardano le immagini con attenzione, ci si rende conto che, in queste riprese girate a posteriori, ai bordi delle strade non si accalcano grandi masse di persone. Ma questo interessa poco Goebbels, con un montaggio ad hoc non si nota.

È ora facile capire perché l’inverno della letteratura: una scena così allegra e interessante e dinamica e significativa lascia spazio a un periodo di stasi (riferimento non casuale), di fermo, di appiattimento. Un periodo fin troppo lungo che non ha insegnato molto all’umanità. Consiglio di leggere Uwe Wittstock e tutti i grandi autori dell’epoca.

Viviana Calabria