di Bastiana Madau
Soter editrice, 2023
pp. 124
€ 14,00 (cartaceo)
Non si hanno notizie di “maestre”, a tutt’oggi, nell’ambito maiuscolo dell’università. Altre e molte donne hanno fatto e fanno quotidianamente parlare di sé, all’interno dell’istituzione, nel ruolo di brillanti studentesse, ricercatrici, professoresse, addirittura rettrici. Le maestre no: la loro qualifica, se ci si attiene all’interpretazione professionale del termine, esprime, di norma, una possibilità di docenza che si ferma alla scuola della primissima e prima infanzia, non più oltre. Come se avere a che fare con la fascia d’età ultraminorenne non fosse, del resto, il colpo di diapason più importante; quello che, se bene assestato, saprà produrre musiche di cui beneficerà l’udito futuro del mondo, o che, viceversa, batterà sordo, invano, un’eco vuota del passato. Sarà per questo che, nella volontà di contravvenire a ogni protocollo gerarchico e di restituire a questa parola la sua valenza etimologica, le magistrae di cui parla Bastiana Madau nel suo ultimo libro appena pubblicato da Soter editrice operano al meglio in un’accademia, per così dire, ignota e non riconosciuta come tale, laddove l’assenza di un’identità e di un’ufficialità non si associa certo alla mancanza di valore; figure capaci di insegnare in quel modo gentile e transitivo – e spesso anche non consapevole e non intenzionale – che induce gratitudine e affetto oltre che autorevolezza e rispetto, e che scelgono come teatro (o semplicemente e spontaneamente le agiscono) le sedi di una consuetudine domestica e sociale, privata come pubblica, fatta di saperi antichi, acquisiti o innati, che ancora, e con tutta evidenza, non hanno smesso di insegnare qualcosa.
Chi sono, dunque, le Maestre dell’università sconosciuta a cui si fa riferimento nel testo? Sono innanzitutto – dato imprescindibile di provenienza e appartenenza – donne sarde, ovvero corregionali dell’autrice (che è nata a Orani, nella provincia di Nuoro): sono quelle incontrate nel corso di un’intera vita, frequentate all’interno della famiglia o della comunità nella concretezza dell’interazione orale, del dialogo diretto, del dire e del fare condiviso, oppure esperite tramite le narrazioni altrui, dunque attraverso la mediazione di chi, a propria volta e con ricerche pionieristiche, ha inteso sottrarle, se non all’anonimato, almeno all’occultamento. Figure femminili che sono state e ancora sono parte della cultura popolare e materiale della Sardegna, diversissime tra loro eppure tutte, parimenti, poetiche: di quella poesia che è canto e racconto – le contadoras e le cantadoras a lungo ignorate eppure arrivate alle orecchie dell’Isola a scandire il bello e il brutto dell’esistere – e di quell’altra, di affine radice linguistica greca, che si esprimeva in un fare quotidiano tanto ordinario quanto miracoloso – le maestre “di pane” e le maestre “di parto”, artigiane per necessità di sussistenza e specialiste della venuta al mondo che, proprio in virtù della rispettiva materia, si configurano come maestre “di vita” per antonomasia.
Nel numero di queste assai numerose – e anzi, per certi versi, innumerevoli – insegnanti, spicca poi (e non può non spiccare) qualche identità più distinta, per così dire più anagrafica: ecco Marianna Bussalai (1904-1947), punto di riferimento dell’antifascismo isolano e del sardismo; ecco Maria Lai (1919-2013), la più importante e celebrata artista sarda dell’epoca contemporanea. E tuttavia, al netto dei rispettivi onori più o meno mondiali, l’entità dei vari magisteri, per l’autrice del volumetto, si equivale; non fosse altro che le stesse figure maggiormente note hanno condiviso, e a modo loro espresso, il medesimo humus delle “sodali” e “colleghe” più anonime. Perché non è un caso che proprio a Marianna Bussalai si debba l’efficacissimo ritratto delle “cantatrici” e “raccontatrici” isolane in quanto «quiete e ignorate poetesse dell’ombra» (p. 32), ed è proprio Maria Lai, in diversi suoi lavori, ad avere posto l’accento sul significato esistenziale e sacrale del pane; quel pane che in Sardegna - in quanto “arte plastica effimera”, secondo la celebre definizione di Alberto Mario Cirese - veicola, attraverso la sempre studiatissima forma, una sostanza non solo alimentare: perché quell’unico pane che è sinonimo di nutrimento perfetto, quel pane archetipico che è mondo e natura, cosmo e cultura, è declinato, nell'Isola, in almeno 400 tipologie distinte sapientemente modellate da esperte mani femminili, ciascuna con la sua occasione e destinazione. E come tacere, poi, la figura di Pedra Tzilla (al secolo Piera Cilla, 1963-2021), autrice di Benetutti e bibliotecaria di Sassari che ha dedicato anni e anni a un girovagare esplorativo nei centri abitati sardi alla ricerca delle rispettive poetesse, nell’intuizione, avvalorata dall’evidenza, che in ogni famiglia non mancasse mai una voce di donna intenta in una ninna nanna, in una filastrocca, in un canto d’augurio o, al contrario, d’accompagnamento alla morte? A metà del Novecento, d’altra parte, ne aveva avuto consapevolezza già uno scrittore come Carlo Levi, quando, riconoscendo l’alta caratura di quella raffinata improvvisazione muliebre, aveva tratto proprio dalla bocca di una atitadora (una prefica) di Orune, come da un favo atroce, un’espressione ferale e sublime quale “tutto il miele è finito” (totu su mele nd’est agabau) per farne addirittura il titolo di un proprio famosissimo lavoro (1964).
Libro tanto piccino quanto politico, libro di ricordi e di riepilogo, libro in cui si dichiarano con orgoglio le fonti intellettuali, etnografiche e antropologiche del proprio personalissimo romanzo di formazione – l’autrice ha dedicato la propria vita allo studio della filosofia e della letteratura, e dunque ai libri, anche in quanto direttrice delle biblioteche comunali di Orgosolo e Orani – quello di Bastiana Madau è principalmente un libro grato, e come tale ha tutte le migliori caratteristiche dell’omaggio disinteressato fatto da chi ha ricevuto in eredità, custodisce e tramanda a propria volta. In poco più di cento pagine in cui la lingua italiana convive ben volentieri e inevitabilmente con quella sarda senza mai porsi come ostacolo anche per il lettore che non sia “locale”, ci sono le stagioni della vita scandite dalla potenza della parola: la storia che affascina e intrattiene (su contu, magari anche deliziosamente inquietante, ascoltato da una madre, da una zia, da una qualsiasi incantevole affabulatrice), il discorso che emoziona e appassiona (il componimento di una poetessa, la teoria di una pedagogista, il pensiero politico di un’attivista), il carteggio con un’artista divenuta amica e che ha lasciato traccia di sé in lavori in cui scrivere e tessere diventano sinonimi e mettono alla prova la più codificata delle grammatiche. Ma c’è anche, e forse è inevitabile che ci sia, la consapevolezza adulta di chi riconosce come la sua generazione sia stata (forse? Il dubbio autoriale lascia aperto il cerchio della domanda, sperando di privarla di un’avvilente retorica) l’ultima fruitrice di un patrimonio perennemente a rischio di estinzione, dunque l’ultima a godere e avvantaggiarsi, per semplice coesistenza con la prassi vigente, di tanta quotidiana fortuna.
Testimonianza di un passato non ancora remoto, Maestre dell’università sconosciuta viene pubblicato in un presente caratterizzato da sovrabbondanza degli stimoli formativi, agonismo dei titoli di studio, virtualità dell’apprendimento, preoccupanti derive tecnologiche e mediatiche del sapere: lo si potrebbe pertanto travisare e classificare come testo nostalgico, addirittura come testamento poetico (con tutte le possibili sfumature che l’autrice attribuisce e riconosce a questo termine). Ma sarebbe un errore: non solo perché non di mera adorazione delle ceneri, bensì di alimentazione della viva fiamma che vi cova sotto, si tratta, ma perché il richiamo all’ignoto che vi campeggia nel titolo suona come un’esortazione a fare in modo che ignoto, per l’appunto, non resti. Oltre ogni aula, cattedra e banco, nell’educazione alla lettura di ogni bambino e ogni bambina, nell’interazione tra chi racconta e chi ascolta, nella consapevolezza di come ogni scambio inteso in questi termini sia cosa concreta, “fatta” in quanto “poetata” e dunque “poetica”, Maestre dell’università sconosciuta è un libro futuro, del domani, che si consegna e si offre, come un dono, a chi saprà contraccambiarlo con l’azione, fosse anche solo l’azione della memoria e del ricordo; con quella, insomma, che l’autrice definirebbe – e a ragione – l’investigazione inesausta dello spazio deputato all’incontro della parola con il gesto, della frase con il verso, del componimento con la direzione – certamente “ostinata e contraria” (per citare un cantautore che scelse la Sardegna come seconda casa) rispetto a uno status quo di silenzio e di oblio.
Cecilia Mariani
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