di Alessandra Sarchi
HarperCollins, febbraio 2023
pp. 160
€ 17,50 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)
No, non sono morta! Ho vissuto la mia vita, non quella che gli altri avevano pensato per me. Mi sono salvata. (p. 67)
Cosa accadrebbe se Anna Karenina non ponesse fine alla propria vita gettandosi sotto il treno? Se dalle acque del fiume Ofelia uscisse viva? Se l’Albertine di Proust vivesse liberamente la propria identità fluida? E, ancora, se Emma Bovary trovasse uno sfogo alla propria insoddisfazione?
In questo spazio si muove Alessandra Sarchi, penna raffinata e salda voce autoriale, che in Vive! – prima un podcast e ora diventato libro per Harper Collins – riscrive l’epilogo che accomuna dieci eroine della letteratura occidentale nate dalla penna di scrittori che con quelle morti tragiche hanno contribuito a creare uno stereotipo letterario mai davvero esaurito. Eppure quei testi potentissimi erano già disseminati degli indizi di altri destini possibili, di strade diverse da poter percorrere.
Condannate dalla morale del tempo in cui sono nate, le eroine di queste storie non potevano conoscere libertà se non attraverso la loro morte tragica – e talvolta nemmeno in quel caso, basti pensare alla pena di Francesca da Rimini – diventando immortali e gloriose proprio in quel gesto. Sarchi compie un’opera che non è semplice riscrittura di testi ben saldi nell’immaginario collettivo, ma ripercorre ognuna di quelle storie a caccia degli indizi che aprono a possibilità inesplorate sulla pagina eppure concrete, con lo sguardo del contemporaneo che più facilmente può accogliere il desiderio di libertà e affrancamento dalla morale comune che le condannava invece nelle società patriarcali entro cui si muovevano. E la questione è stratificata: non solo l’autrice abilmente opera una selezione di personaggi emblematici e ne muta il destino, ma si interroga continuamente sul contesto che le ha create, lo mette in dialogo con la contemporaneità rivelando tutti i limiti cui ancora le donne sono soggette quando non rientrano nelle categorie prefissate per loro, riflette sulla fallevole idea di universalità dell’arte.
Si ha un bell’appellarsi all’universalità dell’arte, al suo trascendere la differenza sessuale, rimane il fatto che il nostro sguardo è sempre collocato e a tale collocazione – geografica, culturale, storica, psichica – non è estraneo il genere, anzi. La neutralità dell’arte è perlopiù invocata da chi non vuole riconoscere la quota di potere che inevitabilmente implica: qualsiasi gesto artistico è anche un gesto di autoaffermazione che non può prescindere da modo in cui lo compie si relaziona alla propria identità sociale e di genere. (introduzione, p. 15)
Un testo denso, stratificato, mosso da conoscenza e passione che traspaiono chiaramente da ogni pagina e che ricorda a noi lettori contemporanei quanto i classici siano opere vive, in costante dialogo con il pubblico di ogni tempo e luogo, e la lettura stessa una pratica tutt’altro che statica ma che deve coinvolgere il pensiero, la riflessione, la messa in discussione di quanto crediamo. Lo fa con capacità e rispetto per il testo originale, il cui giudizio non è affatto scalfito da questo atto di immaginazione – perché non mi sento di definirla riscrittura in senso stretto – , resta ben saldo nel pantheon delle letture ideali di Sarchi ma che proprio per la forza dirompente dei testi, nella complessità delle eroine e in tutti quegli indizi che vi sono disseminati, si apre a «uno spazio nuovo»:
A scanso di equivoci: immaginare un destino diverso per queste eroine è un atto letterario che non vuole giudicare né cancellare il disegno originale con cui sono state concepite, ma sviluppare uno spazio nuovo, possibile. (introduzione, p. 21)
Così come per il podcast, la narrazione è strutturata in due momenti: un breve ma puntuale saggio inquadra la protagonista e l'opera di cui è protagonista, il contesto entro cui si sviluppa, in una riflessione critica che pur nella concisione non perde di efficacia. Poi lo spazio è dato all’invenzione letteraria: Sarchi restituisce voce e corpo – quest’ultimo altro elemento essenziale della narrazione – a ognuna di loro, tracciando quella nuova strada che le allontana dal tragico destino originale. Sono questi ultimi testi di natura ogni volta diversi che aderiscono alla protagonista e le ridanno forma, un tributo appassionato sì ma anche profondamente capace, tanto di mestiere quanto di analisi. La postura autoriale di Alessandra Sarchi – tra le voci più interessanti e capaci della letteratura italiana contemporanea – è quella della raccontista, che qui si lega allo studio letterario, l’invenzione e al contempo il rispetto per il testo di partenza.
Un’operazione intrigante che si colloca a confine con riscritture e rivisitazioni di testi e personaggi della tradizione letteraria, scegliendo però questa efficace prospettiva, questo frammento che si fa racconto, perché è la tragicità del destino delle eroine selezionate a designarne il massimo compimento sulla pagina, la grandezza e la condanna. Vittime della penna degli uomini, vittime del proprio tempo e delle convenzioni che hanno osato sfidare, Anna, Emma, Didone, Francesca da Rimini, Marguerite Gautier e le altre sono passione e corpo, vivacità e anelito alla libertà in un mondo che le vuole solo mogli e madri devote.
E quel corpo, per ognuna di loro seppur in forme diverse, è forza e limite, strumento e oggetto. Fino a scomparire – lo strazio della punizione dell’adultera Francesca, privata del proprio corpo e ridotta a una voce – , usato e violato perfino dopo la morte – Marguerite signora delle camelie il cui corpo viene riesumato dall’amante – continuamente osservato in ogni dettaglio – Anna Karenina, lo sguardo e le lunghe ciglia, le mani in movimento, le spalle paffute, la folta chioma. Il corpo delle donne, oggettivizzato, giudicato, scrutato. O allora smaterializzato, come per Ofelia:
[…] la morte di Ofelia avviene fuori scena – , è in effetti l’ultimo atto di smaterializzazione di un corpo che non ha mai avuto la possibilità di affermarsi in maniera autonoma. (p. 67)
Nel dubbio della fine di Ofelia risiede la possibilità di salvezza che Sarchi sceglie per lei, finalmente libera. È un gioco letterario forse, ma basato su una lettura attentissima al dettaglio, agli innumerevoli indizi che rappresentavano strade non esplorate perché la tragica fine dell’eroina era la sola immortalità possibile: delle adultere, delle donne scomode come Hedda Gabler, delle vedove che riscoprono la passione e l’amore, delle Albertine la cui identità di genere oggi non avrebbe bisogno di essere definita.
Grandezza e condanna insieme, specchio delle soffocanti morali del tempo ma che si legano oggi a rinnovate forme di limitazione della libertà delle donne. Seguire i sentieri esplorati da Sarchi è infatti anche riflettere su quello che un tempo era condannato e oggi forse accettato ma non privo di rischi e giudizi; se è vero per esempio che la relazione extraconiugale di una donna può tradursi in divorzio senza che questo le causi lo stigma sociale e la perdita di ogni cosa, è pur vero che non sarà esente da giudizi, accuse, malignità che a un uomo non sono date nella stessa misura. Quando ci ribelliamo alle etichette che di volta in volta ci vengono appiccicate, quando non ci conformiamo all’immagine socialmente accettata per una donna, ecco che diventiamo problematiche.
Ma abbiamo la fortuna di poterci ribellare – almeno in questa parte di mondo – di scegliere un altro finale per la nostra storia.
Debora Lambruschini
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