Crapalachia. Biografia di un luogo
di Scott McClanahan
Pidgin, marzo 2023
Traduzione di Sara Verdecchia
pp. 192
€ 16 (cartaceo)
Un testo bizzarro, sperimentale, vivo: Crapalachia, di Scott McClanahan, arriva in Italia per Pidgin edizioni nell’attenta traduzione di Sara Verdecchia ed è una delle letture più sorprendenti di questi mesi; un testo imperfetto forse, tra memoir e romanzo, ma assai interessante. Crapalachia è il soprannome ironico dato all’area degli Appalachi e la connotazione geografica è elemento essenziale di questa “biografia di un luogo” come recita il sottotitolo, a connotare perfettamente il senso della narrazione.
Ma voglio partire dalla fine per tentare di spiegare che cosa rappresenta Crapalachia, per il lettore e per chi lo ha scritto:
Volevo scrivere i loro nomi per poterle ricordare quando tutti gli altri avrebbero dimenticato. Volevo scrivere un elenco di tutte le persone che avevo conosciuto e conservarle nel mio cuore. Volevo avere un loro elenco anche se non potevo vedere i loro volti. (p. 148)
È questo il cuore del romanzo-memoir di McClanahan: uno struggente canto per tutte le persone amate e perdute, per i luoghi dell’infanzia, che grazie alle parole si fanno di nuovo carne e terra, vive, indimenticate. La narrazione di McClanahan è diretta, brutale, inaffidabile per sua stessa ammissione, contaminata da sentimenti ed espressioni gergali, ma anche la forma più efficace per raccontare questa storia. Una narrazione onesta, priva di lirismi, non edulcorata: è il West Virginia rurale, è il sentimento complesso che ci lega al luogo d’origine e quella tensione costante tra andare e restare, alla famiglia, a noi stessi.
Ci sono almeno due livelli di lettura in questa storia: uno più legato all’aspetto familiare, l’altro ai luoghi e il suo mutare nel tempo. Parto da quest’ultimo, da una narrazione disseminata di fantasmi, possibilità mancate, abbandono:
Leggemmo degli incidenti della storia. Della James River and Kanawha Turnpike, una strada a una sola corsia che passava davanti a casa nostra. Era la via verso l’Ovest. A realizzarla furono George Washington e gli abitanti della Virginia, mentre i newyorkesi costruirono il canale Erie. Gli abitanti della Virginia scoprirono che sull’acqua si viaggia più rapidamente e furono sconfitti. New York divenne New York. Ma cosa sarebbe accaduto se avessimo vinto noi? Immagina la Crapalachia al centro del mondo. Immaginala con grattacieli altissimi tra le sue montagne. (p. 40)
Una possibilità mancata, appunto. La Crapalachia non è diventata New York, non ci sono grattacieli ma montagne e case molte delle quali in rovina. Nel rievocare – e rimaneggiare, come si vedrà – la propria infanzia e adolescenza, McClanahan scrive quindi la biografia di un luogo, tra ciò che per un momento nella storia si era creduto sarebbe potuto essere e ciò che invece è diventato, le miniere, i terribili incidenti, la rovina:
Era tutto sparito. Adesso c’erano solo montagne, e una strada tortuosa piena di buche così profonde che avresti potuto seppellirci i tuoi figli. […] ora c’era dell’erba che cresceva alta su qualsiasi cosa e rampicanti che avvolgevano le baracche e binari arrugginiti e ponti che oscillavano. Non era rimasto più nulla del passato. Non c’era più una miniera di carbone. Non c’era più una casa. (p. 101)
A mano a mano che attraversiamo i luoghi della narrazione vediamo i semi di una gentrificazione sempre più importante del posto, un fenomeno che negli ultimi anni la letteratura nordamericana osserva con particolare attenzione e con il quale anche il nostro quotidiano da questa parte dell’oceano dovrebbe iniziare a fare seriamente i conti. È la prima fase di un turismo inaspettato che muta le dinamiche del quotidiano, è il lavoro che cambia, il progresso e ciò che comporta, ma si possono già cogliere i segnali di un fenomeno che se non controllato trasformerà in modo definitivo la geografia del luogo e delle persone.
Mi sedetti a scuola e lessi di come tutto cambia, persino nella Crapalachia. Lessi di come i minatori si trasformarono in macchine e dei taglialegna che diventarono macchine e delle piccole strade divenute interstatali e delle città trasformate in fast food e stazioni di servizio e delle persone diventate persone che servono i turisti che ridono del loro accento. (p. 143)
La narrazione di McClanahan innesca una serie di richiami letterari, dalla tradizione alla contemporaneità, voci e autori molto diversi tra loro ma legati dal fil rouge dei luoghi, di un certo senso di perdita che pare attraversare talune storie, la brutalità che si mescola al quotidiano. Penso soprattutto allo straordinario Un piede in paradiso di Ron Rash, alle sue Smoky Mountains tra North Carolina e Tennessee, alla piccola contea agricola di Oconee dove si consuma la storia di segreti e colpe che l’acqua seppellirà per sempre. O, ancora, a certe storie del Kentucky di Chris Offutt, la tensione tra desiderio di allontanarsi da certi luoghi e la nostalgia per ciò che meglio si conosce, lo sguardo dell’autore sempre rivolto alla geografia che fa gli individui. E poi, naturalmente, a Breece D’J Pancake: gli Appalachi, la zona povera, la violenza, l’alcol e la perdita, il conflitto sociale, la tragicità commovente.
E c’è, dicevamo, l’altro livello di lettura, quello più legato all’aspetto familiare: McClanahan manipola la propria memoria, la piega alla narrazione, ma ciò che resta è racconto intenso e struggente di affetti e perdita. Le storie, le persone, sono il cuore di Crapalachia. Su tutti, la nonna Ruby, eccentrica, accogliente, che saldamente tiene le redini della famiglia, e Nathan, uno dei figli, colpito da paralisi celebrale a cui l’autore è legato da un affetto profondo. Il figlio che è rimasto e a cui molta vita è preclusa, in una tensione estrema del conflitto tra andare e rimanere.
Mi chiesi se stesse pensando al fatto che era lui il figlio che era rimasto. Lui era stato quello seduto a guardare i suoi fratelli più piccoli quando erano bambini, e poi li aveva visti andare via di casa quando erano diventati adulti. Lui era quello che era rimasto perché non aveva avuto scelta. (p. 59)
Alla memoria di Nathan l’autore dedica i suoi ricordi più intensi, mutandoli talvolta a favore della narrazione, ma senza per questo modificarne più del dovuto l’essenza. Il rapporto con lo zio si intreccia alla sua condizione, al racconto delle difficoltà quotidiane, all’ironia, allo sguardo degli altri, al desiderio di amore, al legame non sempre facile con la madre e il suo desiderio di protezione. Ora struggente, ora ironico, il ricordo del tempo con Nathan è una parte preziosa di questo libro in cui le persone, appunto, ne rappresentano il cuore. In cui il ricordo, quindi, ne è l’essenza.
Volevo scrivere un libro su tutte le persone che ho conosciuto e amato prima di dimenticarle ma capisco che ora il mio libro è un’altra cosa. Capisco di aver recitato una preghiera egoistica per me stesso. Capisco di aver recitato questa preghiera… Per favore ditemi che sono esistito. Vi prego, ditemi che sono nato. Vi scongiuro ditemi che ho cantato, riso, ballato, visto e sognato. Ormai sono al di là di ogni cazzo di ricordo. È il momento di dimenticare. Dio benedica i dimenticati. Dio benedica i senza memoria. Ci passiamo la fiaccola della vita l’una l’altro come corridori nella notte. Io continuerò per sempre a cercarvi. Vi prego, continuate a cercarmi. Per favore. (p. 169)
Il ricordo, anche attraverso la manipolazione della memoria, la necessità primordiale di raccontare per non dimenticare chi abbiamo conosciuto e amato. Un desiderio struggente, una narrazione umanissima.
Debora Lambruschini
Social Network